Intervento di Mons. Josè Maria Serrano Ruiz

V. Decano Tribunale Rota Romana

Unione Giuristi Cattolici di Piacenza

CONVEGNO

“La tutela dei figli nelle crisi coniugali”

Piacenza, 17 maggio 2003.

 INTERVENTO DI MONS. José María SERRANO RUIZ, INTRODUTTIVO ALLE RELAZIONI

Grazie. Il mio incarico professionale e passionale è uditore, ascoltatore, (e per di  più ho questa antipatica raucedine che credo venga dal viaggio in treno) perciò voglio dire poche parole. Vengo fondamentalmente ad ascoltare e con grande attenzione. Ma penso anche che devo giustificare la mia presenza, dopo qualche centinaio di chilometri, e non venire solo a presiedere la seduta.

      Forse per l'impressione recente che ancora ho,  vorrei fare qualche piccola osservazione metodologica che credo potrà servire per le nostre riflessioni odierne. Qualche giorno fa, all'Apollinare, c'è  stata una  tavola   rotonda che per il livello dei partecipanti, forse il più alto che si poteva trovare, stimolava molto  l'assistenza.  Erano relatori, tra gli altri, il  Cardinale  Ratzinger,  Francesco Cossiga, il professor De Rita, Galli della Loggia…. Di tutto quello che si è detto nella riunione due idee hanno richiamato la mia attenzione specialmente, come dicevo, come riflessione metodologica. Il professor De Rita ha  detto che il vero problema dei cristiani attuali è mettere  a confronto due atteggiamenti molto separati tra loro: uno le idee che  hanno una valenza immutabile, che non cambia,  che  vanno riconosciuti sempre e che costituiscono il nucleo sostanziale del messaggio della Chiesa; e l'altro, l'atteggiamento di rispetto della persona, vero fulcro portante della cultura e della sociologia attuale che rifiuta in principio una imposizione delle idee per autorità o senza convincimento. Pertanto lo sforzo della Chiesa, dei messaggeri cristiani, dovrebbe essere propugnare e predicare instancabilmente i valori del Vangelo, ma non come qualcosa che si debba ammettere per forza e per sé stessa, ma come proposta che deve convincere, che deve essere assunta, che deve essere assimilata per adesione personale, in modo di salvare la  immutabilità dei valori e la centralità della persona umana, della sua dignità e della sua libertà. Il classico ossequio razionale che implica la fede deve insistere il più possibile nella razionalità non solo per motivi apologetici ma anche per un così dire coerente rispetto di Dio alla sua creatura razionale. Credo che un punto sul quale noi dovremmo riflettere molto, come cristiani e come cittadini,  chiamati a fare tante scelte laiche.

Il professore Della Loggia avanzò un'altra idea che in parte concorda con la precedente e che a me fece ugualmente impressione. E ciò anche per il ricordo dei miei studi di gioventù, poiché sono un appassionato del diritto romano, oltre che del diritto canonico. Il professor Della Loggia dunque disse che la Chiesa dovrebbe instancabilmente predicare i suoi valori, ma non  cercare di per sé che lo Stato li sancisca come leggi. Lo Stato ci deve arrivare per la sua propria strada. La Chiesa predica, la Chiesa forma le coscienze, i cittadini decidono sulla norma civile.

      Credo che siano due atteggiamenti sanamente laici, validi tutti e due, perché nello stesso tempo  rispettano l'autonomia di ognuna delle due società e sono uno stimolo fortissimo per cercare strade di comunicazione. Notavo anche che l’ultima osservazione del professore Galli Della Loggia mi aveva fatto particolare impressione, perché dicevano gli antichi Romani  "plurimae leges,  pessima  Respublica".  Una Repubblica  nella  quale ci sono troppe leggi non è un'ottima Repubblica.  Il ché in qualche modo riconosceva anche il grande Carnelutti quando con la sua proverbiale veemenza arrivava a dire: "il diritto è molto dispendioso, il diritto è chiamato a fagocitare sé stesso, bisogna che il diritto abbia il coraggio di arrivare a una impostazione dei problemi nella quale le leggi non servano più, se non per favorire il passo al convincimento ed all’amore”.

Dunque queste due proposte metodologiche mi sembrano ottime, e dal punto di vista della Chiesa e dal punto di vista della società civile. E lo sono soprattutto nella problematica familiare nella quale si intersecano tanti principi di ordine etico, affettivo, psicologico, sociale… che difficilmente solo una norma formale quale si può chiedere allo Stato, può venire incontro a tutte le esigenze prospettate; come neanche una valutazione religiosa può imporre indiscriminatamente le sue esigenze.

      Vorrei ora aggiungere, solo due minuti, una  mia idea personale sulla quale a suo tempo sono rimasto sorpreso -"ma come non ci avrò pensato prima!"-. Tante volte diciamo che l'uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio. Ma dicendo che l'uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, diciamo -forse senza renderci conto- che l'uomo è fatto un essere familiare; perché quello che  i filosofi chiamano analogatum princeps, cioè il punto di riferimento del modello, non è il Dio persona unica, né l’atteggiamento sponsale di Dio, non è Dio solo Amore, è la Trinità, Dio Padre-Figlio, Dio-famiglia. Pertanto, quando noi pensiamo a riprodurre l'immagine di Dio nell’uomo, dobbiamo avere un grande interesse per approfondire la famiglia. Sotto questo profilo dovrei fare autocritica della posizione della Chiesa e dunque della posizione anche del mio Tribunale, che pensa tantissimo al matrimonio e così poco alla famiglia. Le radici sono molto profonde: c'è un aspetto contrattuale del matrimonio, un atteggiamento liberale nei confronti dei coniugi, dei loro doveri e diritti in un rapporto interpersonale, dal quale, nella sua radice, esula ogni riferimento ad altri protagonisti. Ma la famiglia… Specialmente la famiglia in difficoltà… La famiglia nel bisogno di un’attenzione cristiana ed umana…

Ricordo quando studiavo nell’Università Gregoriana, avevamo un  professore di Trinità molto buono -il suo nome ha prestigio internazionale, P. Lonergan- il quale diceva: "solo il figlio fa il padre, come il padre fa il figlio”. Ed infatti finché non nasce il figlio può esistere l’uomo, ma non nasce il padre. Un professore  può essere simpatico, chiaro, lavoratore; ma se un alunno  non impara, lui non insegna. Insegnare dipende tanto dal  professore, quanto dall'alunno. Così il padre non esiste senza il figlio, il  figlio non esiste senza il padre; la famiglia non esiste senza i figli, almeno come intenzione, e, a loro volta, i figli non possono esistere senza famiglia. Come non c’è matrimonio senza famiglia. Perciò tout court si può dire che padri in crisi vuol dire figli in crisi e che qualsiasi proposta di soluzione del problema passa per la considerazione contestuale delle due componenti per principio inscindibili.

Questo che noi vediamo teoricamente bisogna  riscontrarlo nella pratica ed applicare tutto il nostro sforzo per farne non un’idea concettuale, ma una realtà dinamica viva, esistenziale, che in buona parte dipende dalla nostra responsabilità.

Ciò ho detto nella speranza di offrire qualche spunto alle nostre riflessioni. Forse non immediatamente qui, ma quando nella lettura meditata dei diversi contributi ci troveremo di fronte alla realtà dei casi concreti.

INTERVENTO CONCLUSIVO

MONS. José María SERRANO RUIZ.

Anch'io ho avuto una metanoia -d’accordo con la felice espressione del Procuratore Quaranta- un intendimento penitenziale, di pentimento, proposito di questo mio intervento conclusivo. Mi riprometto, e ho preso qualche nota, di rielaborare queste cose interessantissime che si sono dette qua e con le quali mi sono sentito pienamente coinvolto; adesso però vi voglio offrire, perché ho apprezzato molto uno degli ultimi riferimenti del nostro Pubblico Ministero -sono anch'io Magistrato e ci tengo tanto e pago di persona quella fedeltà del Giudice al caso- qualche riflessione spontanea su fatti concreti che preoccupano tutti. Questo  sforzo di cercare in un ordinamento così legato all'essenzialità e alla immutabilità, com'è l'ordinamento canonico della Chiesa, l'elasticità e la instabilità dell'esistenziale, del fatto, e cercare di ritrovare l'assoluto nell'esistenziale, è una forma mentis che sempre fu una delle mie preoccupazioni fondamentali. Penso che lo sia stato già dei vecchi giureconsulti romani attraverso il ben conosciuto sistema delle actiones in factum e che in verità non è se non vivificare l'assoluto, non perderlo, ma realizzarlo e incarnarlo effettivamente. Perciò vorrei solo raccontare cinque o sei  aneddoti - non lo so, quando siate stanchi tagliamo - perché sono 33 anni di Giudice alla Rota, pertanto ne ho di aneddoti…

     

      Il primo è per giustificare la legittimità personale, aldilà di quanto potesse suggerire un ruolo istituzionale, del mio intervento. Legittimare, in gergo giudiziale, la mia presenza qui e legittimarla con una ragione che senz’altro, in quanto personale e perfino intima, non avranno avuto presente gli organizzatori. Diciamo in Spagna: "ogni zoppo è affezionato a camminare". Io amo con passione i bambini. Freud avrebbe avuto qualche cosa da  dire… Fatto sta che tutti gli anni, il  21 novembre nella festa di Maria Bambina, raduno a casa mia una quarantina di bambini, bambini che ho battezzato o a cui ho dato la prima comunione; qualcuno viene con i genitori, per me è molto meglio che  vengano da soli, che facciano - questo che adesso si dice tanto - pool di gente dei dintorni che me li porta a casa. Ho una fotografia con 32 bambini e io in mezzo (la fotografia ce l'ho nel bagno perché mi sembra troppo frivola per essere nel mio studio, ma troppo bella perché non la vedano altre persone, magari di paso. Invece se la mettevo nella mia camera, me la godevo solo io con ingiustificato egoismo).

Dunque questa è la mia legittimazione, una passione per i bambini. Anzi, poco tempo fa, un mese fa, essendo in Inghilterra, a Manchester, come qualcosa che mi viene spontanea appena vedo un bambino gli faccio il segno  della croce in fronte (anche quando distribuisco la comunione alle mamme che vengono con i bambini, faccio il segno della croce nel bambino)… Quindi facendo la benedizione-carezza ad un bambino inglese, una signora mi ha detto: "Padre, qualcuno di questi bambini ha paura  perché gli hanno detto i genitori di non avvicinarsi alle persone grandi che non conoscono". Questo mi ha fatto sentire enormemente triste e mi ha riportato così, di colpo, a queste cose che si leggono tutti i giorni nei giornali e che sono il segno più eclatante della degradazione della nostra società, nella quale non c’è posto per la pace dei bambini.

      Poi conservo un altro ricordo che porto molto dentro di me, anche per la circostanza in cui è accaduto, e che sarebbe da mettere in rapporto con la seconda parte del nostro tema.

 Nell'anno 1971, la prima volta che, appena nominato Giudice della Rota, ho incontrato  Paolo VI -le  cose migliori di Paolo VI non sono state pubblicate, erano le sue espressioni spontanee, piene di umanità-,  il Papa ha  detto:  "Voi, Giudici Rotali, penserete che il Papa ha poco apprezzamento del vostro lavoro, che ci tiene tanto ai catechisti, ai liturgisti, ai parroci, ai professori…  Invece il Papa ha molto apprezzamento per i Giudici,   perché sa che quando voi entrate in contatto con le coppie, esse stanno attraversando un momento molto difficile della loro esistenza; e che dalla profondità, dalla competenza -e io aggiungerei dalla passione-  con  la quale voi  tratterete  questo  problema, dipenderà tante volte non l’allontanamento, ma il ritorno alla  fede". Infatti, le crisi di per sé non è detto che si superano sempre  verso  il male, le crisi sono crisi e si può andare avanti e si deve andare avanti o si può retrocedere, ma non è detto che per forza in un momento  di dolore, in un momento di difficoltà, si debba  calare nell'apprezzamento di sé, nella comprensione della situazione. Perciò questo riferimento del Papa alla crisi matrimoniale,  come un momento di crisi che almeno in fede può essere superata verso l'alto è veramente stato per me  molto  importante.  Quale il posto dei figli –in specie se minori- in questa crisi è un problema ancora molto aperto. Non certamente merce di scambio per ricatti né oggetti da proiettarsi dall’uno verso l’altro sicuri che sono colpi che fanno molto male e che arrivano dritti al cuore.

     

      Adesso, riferendomi in particolare ai Giudici, un altro aneddoto. Io avevo un collega napoletano,  vesuviano, famoso perché faceva delle sentenze molto, molto stringate. Diceva il necessario e per me, qualche volta, perfino meno del necessario. In un congresso ha detto la messa di clausura e d’accordo col suo stile ha fatto una predica brevissima: Qualcuno potrebbe che il miglior Giudice è quello che è capace di immedesimarsi  nel fatto, viverlo come se fosse suo e cercare di risolverlo come se fosse una tragedia accaduta nella propria vita e questo non è vero. Perché dice Edoardo De Filippo che il miglior attore non è quello che si immedesima  nel  personaggio,  ma quello  che lo sa gestire, quello che prende un po' le distanze. Allora questo credo che sia veramente importante per non prendere un atteggiamento partigiano, ma avere la freddezza di essere veramente extra partes” (Quando dopo la messa è entrato in sacrestia a svestirsi mi sono permesso di dirgli: Se volevi fare una predica corta tanto valeva che ti risparmiavi una parola: tutti sappiamo chi è Edoardo, non era necessario dire ‘De Filippo’) … Il ricordo serve perché tante volte, mediando o cercando di mediare nei conflitti coniugali delle coppie in difficoltà, quasi senza renderci conto prendiamo atteggiamenti partigiani e le troppe parole ci fanno pendere da l’una o dall’altra parte, senza possibilità di essere veramente sobri ed imparziali. Anche sul ruolo dei figli in queste tristi circostanze. I comuni e sereni intenti degli assessori giuridici delle parti potranno essere validi aiuti perché i protagonisti principali della vicenda trovino momenti e ipotesi di una qualche intesa anche per il bene dei figli.

      Ancora un ricordo. C'è un libretto che io avevo  preso nei primi tempi di Giudice Rotale tanto tempo fa -e qui si avrebbe un punto di riferimento a quello che diceva la dottoressa sulle particolarità che offrono i conflitti coniugali-, che si chiama così: “Parlami, ho tante cose da dirti…” Cioè: non ascolta, sta zitta o zitto; adesso tocca e me… Al contrario: parlami, ho  tante cose da dirti… E’ questo l'inizio della comunicazione in intimità, tra quelli che sono chiamati a vivere continuamente insieme. Non pretendere che l'altro o l’altra ascolti, che uno rimanga passivo etc., ma  cercare  di provocare  il  dialogo  generosamente: "Parlami, non stare con questo muso più tempo”. Parlami non perché ti devo ascoltare, ma perché ti devo dire tutte le cose, devo creare questa atmosfera di comunicazione e di dialogo. E ancora una volta penso che siano proprio i figli, che hanno diritto a una vita chiara ed aperta, a rompere il mutismo dei genitori senza badare tanto a chi debba essere il primo a prendere l’iniziativa…

     

      Da questo mi viene alla mente un’altra esperienza  mia personale che vorrei oggi commentare con voi. Credo che qualche volta lo Spirito Santo entra dentro e parla lui anche se si sente la propria voce. E’ così che una volta ero in un congresso in Spagna e si è presentato un giornalista della radio –gente pericolosa quella soprattutto quando assaltano all’improvviso, più o meno come voi qui- e dunque l’intervistatore ha voluto farmi delle domande impegnative tenuto conto che ero un prete, e prete di certo rilievo. E allora ha sparato senza ritegno: “Lei è prete: Che cosa è per lei la solitudine?”. Domandare ad un prete per la solitudine così a cielo aperto, non poteva che comportare un certo  imbarazzo: "onestamente guardi, è una domanda che dovrebbe fare pensare un pochino, non si può rispondere così, su due piedi, ad un problema così grande di per sé e così grande per la persona. Ma poi che Lei mi domanda così, cercherò di rispondere senza dilazioni: solitudine è il coraggio che ha la persona di entrare dentro di sé  e se si trova abitata e trova qualche cosa di valore  sentirsi soddisfatta e se non trova nulla, sentire una enorme tristezza”. Forse perché trovò stimolante la risposta, forse perché pensava che c’era ancora spazio per interessarsi per i problemi specifici del sacerdote,  l'intervistatore ha proseguito e ha domandato: "e l'amore, cos'è per lei l'amore?". Se la prima domanda era impegnativa, la seconda era più impegnativa ancora. Ho detto pertanto: "anche ora vorrei prendere tempo…, però seguiamo nella falsariga dell’improvvisazione che abbiamo  cominciato. Quando uno entra dentro di sé e trova che c'è  qualcosa di valore e non vuole esperire la tristezza dell'egoismo, cerca qualcun'altro con il quale  compartire, con il quale viverlo”. Per  me  l'amore  è questo,  l'amore in generale, non solo il mio. Mi  sono  meravigliato io stesso di queste risposte, finché un prete molto saggio mi ha detto: "Ma tu non ti credere che le hai inventate lì per lì. Tu vivi queste idee da tanti anni: in quel momento te le hanno fatto verbalizzarle, ti  hanno obbligato a focalizzarle e così ne hai acquistato chiara coscienza e le hai potuto vivere più gratificantemente".

Ecco un ragionamento che mi ha fatto sempre molto pensare. Anche nei rapporti fra uomo e donna, fra genitori e figli, è importante fare attenzione a quello che si porta in cuore e che si può offrire a un dono più che a un contracambiare, anche se si tratterebbe di un dono reciproco, mai però con l’intenzione di ottenere vantaggi. E penso che il dono più grande che hanno i coniugi, anche in momenti di difficoltà, sono i figli, espressione viva e vivente di un amore che in loro non è morto. E nessun genitore deve essere mai tanto egoista di tenersi i figli solo per sé: si tratterebbe di vivere il convincimento che il fiore che è nato dall’amore tra due non può vivere senza l’amore tra due…

      Sono stato, tra voi, molto contento. Vi auguro un lavoro sempre più proficuo in favore del matrimonio umano e cristiano e in favore del dono più eccellente dell’amore coniugale che sono i figli (cf. Gaudium et Spes, n. 50)

                                   José María SERRANO RUIZ.