Giusnaturalismo oggi

L'intervento di Francesco D'Agostino

GIUSNATURALISMO OGGI

  1. Sono molteplici le ragioni che impongono, ad avviso di molti, di rescindere ogni nodo teoretico tra i diritti umani e la legge naturale, di abbandonare cioè definitivamente il paradigma giusnaturalistico. Queste ragioni possono essere riassunte in una critica fondamentale: esso sarebbe non compatibile con l’orizzonte secolare proprio della modernità. Critica che può ulteriormente essere sviluppata secondo due direttrici: il giusnaturalismo sarebbe filosoficamente premoderno e politicamente non democratico.

1.1.   Quello della legge naturale sarebbe un paradigma improponibile filosoficamente, perché gravato da un’opzione metafisica, oggi non più sostenibile. La ragione scientifica imporrebbe alla ragione filosofica di sbarazzarsi di ogni residuo metafisico e di limitare il proprio ambito di operatività alla riflessione sulle dimensioni linguistiche e pragmatiche dell’esperienza. La rinuncia ad ogni residuo metafisico da parte della ragione scientifica andrebbe di pari passo con la doverosa rinuncia a qualsiasi fondamento religioso del sapere: per chi assuma la prospettiva della ragione scientifica, in effetti, metafisica e religione vengono di fatto considerate alla stregua di due facce della stessa medaglia, due facce ambedue caratterizzate da un’insuperabile opacità. La crisi della metafisica e della religione, che caratterizzerebbe in modo irreversibile il pensiero moderno, e il progressivo imporsi del naturalismo, in specie nelle diverse versioni darwiniane che oggi vanno di moda, decostruirebbero la natura come principio onto-assiologico e renderebbero quindi impensabile la teorizzazione di qualsivoglia legge naturale, che solo sul carattere assiologico della natura può trovare il proprio fondamento.

1.2.    In direzione analoga si muove l’altra critica al paradigma classico, quella di più spiccata connotazione politica. Secondo questa prospettiva, il paradigma classico oggi non sarebbe più proponibile, perché l’invenzione più straordinaria della modernità, cioè lo Stato costituzionale-democratico, avrebbe il carattere di un’istituzione non solo sociologicamente, ma assiologicamente secolare,caratterizzato dal primato del principio di laicità, ritenuto l’unico principio capace di dare fondamento non conflittuale alla coesistenza civile. La laicità imporrebbe come doverosa la rinuncia a dare alla politica e al sistema dei diritti umani un fondamento religioso o trascendente, come quello giusnaturalistico: la politica dovrebbe essere pensata come il prodotto artificiale di una continua contrattazione tra i soggetti sociali, nel quadro di procedure formalmente corrette. Secondo questa linea critica, ai volenterosi che volessero fondare politicamente il sistema dei diritti umani non resterebbe altra via, se non quella di fornirgli un fondamento convenzionale. 

  1. E’ sufficiente un accordo procedurale tra i cittadini per garantire i diritti dell’uomo? Ormai, dopo decenni di dibattiti politici, filosofici e ideologici, la risposta generalmente condivisa a questa domanda è quella negativa. La giustificazione secolare dello Stato, una giustificazione cioè né religiosa, né metafisica, è infatti fragile e fredda. Un simile Stato non può garantire l’obbligo politico né a maggior ragione quel rispetto per i diritti umani che è costitutivo dell’obbligo politico nella modernità. Il tema, come è noto, è espresso in forma mirabilmente sintetica da Ernst-Wolfgang Böckenförde,  in un teorema (Diktum) molto citato: lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti normativi che esso stesso non è in grado di garantire. L’ obiezione rivolta da alcuni a questo teorema, cioè che mai alcuno Stato nella storia (a parte le esperienza totalitarie novecentesche) è riuscito a pensare e a porre se stesso come creatore di valori sono inconsistenti, perché mai, prima dell’avvento della società secolare, il contesto del vivere civile è apparso dominato come oggi avviene dall’ipoteca del nichilismo.  La verità è che questo teorema appare difficilmente confutabile, almeno nella sua portata sociologica, al punto che alcuni, consapevoli della loro incapacità di criticarlo, si limitano a denunciarlo come pericoloso, in quanto sarebbe dotato di una valenza politicamente regressiva. Sta di fatto che il Diktum di Böckenförde ci convince che non è possibile coltivare l’illusione che lo Stato possa attivare forme di solidarietà civile, se decide di rinunciare ad ogni preventivo riferimento a paradigmi metafisici o religiosi, anche se cerchi di sostituirli con formule surrogatorie di diversa natura, come, ad es., quella del patriottismo costituzionale.
  2. Gli esiti di queste logomachie sono ben noti: i diritti umani, privati del fondamento giusnaturalistico, si sono trasformati in mere pretese soggettive e insindacabili  e per di più in pretese insaziabili (come è stato efficacemente affermato); la relazionalità, che nel suo calore antropologico è esperienza costitutiva del vivere sociale, sembra cristallizzarsi in forme burocratiche e corre il rischio di ridursi, secondo l’arguta espressione di Robert Putnam, ad un Bowling alone, ad un gioco solitario e stupido, ad una passione inutile. E’ ormai emerso nella coscienza di tutti il carattere contraddittorio, sul piano formale, dei due principali diritti umani, quello di libertà e  quello di uguaglianza: Bobbio, che fu capace a suo tempo di rilevare questa contraddizione, non fu però mai in grado di risolverla, perché la sua riluttanza ad elaborare una consistente antropologia, riluttanza che peraltro accomuna tutti i filosofi radicati nel paradigma del pensiero secolare.
  3. Malgrado queste difficoltà, o forse proprio come conseguenza della loro lucida percezione da parte del pensiero secolare, l’esigenza di garantire un fondamento ai diritti umani resta primaria. Due tra i massimi intellettuali europei se ne sono mostrati profondamente e sinceramente consapevoli. Nel pubblico dialogo svoltosi il 19 gennaio 2004 con l’allora Card. Ratzinger, Jürgen Habermas ha fatto fare un passo in avanti di grande rilievo al dibattito, sostenendo che la ragione laica dovrebbe ormai riconoscere che le grandi tradizioni religiose appartengono alla dialettica della modernità e dovrebbe mostrarsi disponibile ad apprendere da esse. Habermas pone una sola condizione, che tale processo di apprendimento venga pensato onestamente come postmetafisico e come complementare. Postmetafisico, perché la ragione secolare non può che essere autocritica e rinunciare quindi ad ogni pretesa fondazionale; complementare, perché esso dovrebbe essere tale da indurre anche le religioni ad una rinuncia, quella alla loro tradizionale pretesa di autosufficienza. Trasportiamo queste considerazioni sul piano dei diritti. La ragione secolare dovrebbe rispettare la ragione di matrice metafisico-religiosa, riconoscendole l’identità di fonte, di produzione di senso altrimenti non surrogabile (un riconoscimento che di per sé non induce però la ragione secolare a pensare che la ragione metafisico-religiosa sia dotata di un fondamento). A sua volta la ragione giusnaturalistica dovrebbe riconoscere, accanto alle contraddizioni, alle ombre e –perché no?- accanto alla ferocia, anche i meriti altissimi del secolarismo illuministico, in particolare come quella forza storica che ha obiettivamente portato alla proclamazione pubblica dei diritti e che ha introdotto nella storia una sorta di punto di non ritorno, analogo a quello che il cristianesimo individua nella predicazione del Cristo.
  4. Nella sua risposta a Habermas, l’allora Cardinale Joseph Ratzinger ha fatto notevolissime concessioni all’interlocutore: prima tra tutte che la discussione tra pensiero secolare e pensiero religioso (che implica in buona sostanza quella della fondabilità dei diritti umani sulla legge naturale) non può avere un carattere esclusivamente teoretico, ma deve prendere sul serio le esigenze comunicative che sono tipiche del tempo in cui viviamo, contrassegnato da un pluralismo che non è riducibile alla contrapposizione di scuole filosofiche, ma a vere e proprie alternative di visioni del mondo. Egli ha riconosciuto che il modello argomentativo della legge e quindi del diritto naturale –adottato dai teologi cattolici e soprattutto dal magistero della Chiesa da secoli e secoli- appare in una società pluralistica secolare uno strumento spuntato. Affermazione forte e probabilmente sofferta, che non induceva però l’allora Cardinale a riconoscere la debolezza teoretica di questo modello (che egli, anzi, ricostruiva in modo esemplarmente sintetico e lucido), ma solo la sua odierna, debole comunicatività. Sta di fatto, comunque, insisteva Ratzinger, che come è indispensabile riconoscere che la ragione giusnaturalistica appare oggi improponibile a livello comunicativo, così appare indispensabile ammettere i limiti anche della ragione secolare: è la ratio in sé e per sé, sia quella filosofica (in particolare nella sua versione metafisica) che quella scientifica, che sembra oggi non essere in grado di dare una risposta adeguata alla critica che viene formulata contro di essa in un’epoca di multiculturalismo: quella di essere un’elaborazione esclusivamente occidentale e funzionale al perverso  imperialismo che ha pervaso e continua a pervadere lo spirito dell’Occidente, per il quale –per riprendere una formula di Roger Scruton- al West si contrapporrebbe the Rest, cioè tutto il resto del mondo. “In altre parole –concludeva Ratzinger- non esiste una formula per tutto il mondo, una formula, razionale, etica o religiosa che sia, sulla quale tutti siano concordi e che possa sostenere la totalità”. Una conclusione netta e inequivocabile, che potrebbe ad alcuni apparire una sorta di rassegnata resa al relativismo. Però, nel pensiero del Cardinale, non è così.
  5. Non è così e non lo è, perché la totalità esiste, senza che per questo si debba negare che la dialettica West/Rest esista e sia allo stato attuale delle cose difficilmente componibile. La totalità esiste: basta questa ammissione per obbligarci a riformulare il quadro dialettico dell’ insieme di cui stiamo parlando. La totalità esiste (se non si ama il linguaggio filosofico e il peso teoretico del termine totalità si può adottare un linguaggio geopolitico e riconoscere che il mondo è globale) e per il solo fatto di esistere chiede di essere presa sul serio, perché le patologie di cui può cadere preda esigono di essere sanate e non rimosse. Le colpe storiche della ragione religiosa (quelle di un giusnaturalismo rigido, pronto a confondere i principi, duttili e aperti, con norme, univoche e vincolanti, e destinato spesse volte a risolversi in un piatto fondamentalismo) e quelle, forse meno evidenti, ma altrettanto tormentose della ragione secolare, anche nella sua versione scientifica (riassumibili nella depersonalizzazione dell’esperienza umana) esigono che l’alleanza proposta da Habermas tra pensiero secolare e pensiero religioso sia realmente simmetrica e venga in tal modo presa sul serio. Il pensiero religioso non può naturalmente pretendere che il pensiero secolare torni a darsi un fondamento teologico, così come non può pretendere che le strutture sociali della modernità rinuncino al principio di laicità, per tornare a rifondare il sociale sulla fede. A sua volta però il pensiero secolare –al quale quello teologico non deve chiedere alcun atto di pentimento-  deve giungere a riconoscere non solo che il pensiero religioso è produttivo di valori, ma anche e soprattutto che la critica accanita che la modernità ha condotto nei suoi confronto si fonda su di un pregiudizio scientista, quello per il quale non esiste altra forma di sapere se non quello riconducibile all’empiria e al calcolo (ad una sorta di formula neocartesiana: computo ergo sum). La conoscenza opera lungo strade diverse e la fede è strumento autentico di conoscenza, anche se naturalmente ben diverso da quello strumento di conoscenza che è il corretto uso del metodo scientifico-empirico.
  6. Il paradigma dei diritti umani può essere un ottimo esempio di quanto stiamo dicendo: nessun secolarismo, nessun approccio “scientifico” all’uomo, saranno mai in grado di dare un fondamento inconcusso ai diritti umani fondamentali. Concetti come la libertà, eguaglianza, autonomia, emancipazione, solidarietà, fraternità hanno acquistato non solo le loro risonanze emotive, ma soprattutto il significato oggettivo che possiedono solo nel contesto religioso ebraico-cristiano. Per essere capiti, i diritti hanno bisogno di essere creduti, prima ancora che di essere condivisi. Credere nei diritti non significa però formulare a loro carico una sorta di scommessa, che può pur essere psicologicamente fascinosa, ma che è antropologicamente vuota di senso: credere nei diritti significa radicare nel valore della persona umana l’intelligenza che assume la conoscenza come una sfida. Come ci ha insegnato Pascal, riprendendo antiche tematiche, si conosce realmente solo ciò che si ama.
  7. Ipotizzando un’intelligenza originaria, un Logos, che tiene insieme il mondo, il credente non assume un atteggiamento ingenuo, premoderno o regressivo, come parte della cultura laicista tende a ritenere, né conferisce indebiti privilegi alla tradizione razionalistica occidentale. Egli piuttosto elabora un’ipotesi che rende ragione della realtà che sta non solo sotto i suoi occhi, ma sotto gli occhi di tutti gli uomini e nello stesso tempo, elaborando questa ipotesi, le conferisce uno statuto assiologico. Se il mondo esiste, esiste perché ha un valore (ed è per questo che il mondo merita di essere conosciuto e studiato: lo dimostrano paradossalmente proprio i fautori del naturalismo darwiniano, che da una parte postulano un’evoluzione teleologicamente cieca, ma dall’altra ritengono ben sensato il progetto conoscitivo che assume l’evoluzione a proprio oggetto). La tentazione diabolica, quella che nel Faust di Goethe è posta in bocca a Mefistofele: tutto ciò che esiste merita di tornare nel nulla, va rigettata non attraverso l’assunzione di atteggiamenti apodittici, ma attraverso un al mondo, alla vita e alla conoscenza, in quanto dimensioni che portano i segni di una trascendenza ontologica ed assiologica, che per il credente assume il nome di Dio e per il metafisico quello di Essere, ma che anche per il non credente ha una propria evidenza, che si condensa nella stessa esistenza di chi, per il solo fatto di vivere, conferma la positività del mondo. Questo non ha alcun carattere dogmatico e trionfale; anzi dallo stesso Ratzinger è stato, in altra occasione, descritto come umile e caratterizzato da una sorta di timore e tremore. Agli occhi di coloro che non credono a Dio e che non percepiscono l’Essere, la piena comprensione del valore di questo è evidentemente preclusa; resta presente in costoro, e inevitabilmente, la sensazione che l’operare dell’uomo nel mondo e la necessaria individuazione e statuizione da parte sua di tutta una serie di valori umani fondamentali (cioè dei diritti dell’uomo) si manifesti in una sorta di zona grigia, per la quale l’espressione agnosticismo può forse essere più adatta di quella di ateismo. Ma resta pur fermo il fatto che l’agnostico, nel momento stesso in cui si volge alla conoscenza del mondo assieme al credente, non percepisce in questo un’intenzionalità differente dalla sua e proprio per questo non gli è permesso assumere un indebito atteggiamento di superiorità intellettuale, che si trasformerebbe immediatamente in un atteggiamento di arroganza.
  8. I giuristi che tematizzano i diritti umani si trovano oggi ad una svolta. Devono confermare la loro universalità, per evitare che essi vengano ridotti al ruolo, obiettivamente povero, di mere forme espressive di tradizioni culturali spesso, anche se non sempre, rispettabili, ma sempre comunque e inevitabilmente chiuse nel loro particolarismo. Per ribadire la loro universalità, è inevitabile dar loro un fondamento: e quello della legge naturale resta, malgrado tutte le difficoltà, l’unico fondamento possibile. I giuristi devono, d’altra parte,  mantenere la consapevolezza che il processo di determinazione dei principi della legge naturale in carte di diritti  non può che essere paradossale, consistendo essenzialmente nell’esigenza di garantire la parità di una multiplicité non-addition­nable d'êtres uniques, secondo una bella espressione di Lévinas. Il quale, chiamato a rendere ragione di tale paradosso, non ha saputo far di meglio che citare un breve, ma profondo apologo talmudico, con il quale possiamo anche noi chiudere questo discorso: Grandezza del Santo-che-sia-bene­detto! Ecco l'uomo che conia le monete tutte da uno stesso stampo e ottiene pezzi ciascuno uguale all'altro; ed ecco il Re dei Re, il Santo-che-sia-benedetto, che conia tutti gli uomini a partire dallo stampo di Adamo e nessuno rassomiglia ad un altro. E' per questo che ciascuno può ben dire: il mondo è stato creato per me!  ([1]).

 

 

 

[1]) E. LEVINAS, Les droits de l'homme et les droits d' autrui, in Indivisibilité des Droits de l'homme. Actes du II Colloque Interuniversitaire, Fribourg 1985, p. 37. Il brano deriva dal Talmud babilonese, trattato Synhedrin, 37a).