Legge naturale: una presenza permanente nella storia

L'intervento di Mons. RIno Fisichella

Legge naturale: una presenza permanente nella storia

 

Piacenza, 25 settembre 2010

 

 

Creonte: "E così, tu hai osato violare le mie leggi?"

Antigone: "Sì, perché non le ha proclamate Zeus

Né la Giustizia che abita con gli dèi di quaggiù;

Né l’uno né l’altra le hanno stabilite tra gli uomini.

Io non ritengo che i tuoi decreti siano tanto forti

Che tu, mortale, possa passare oltre

Alle leggi non scritte e immutabili degli dèi.

Esse esistono non da oggi né da ieri, ma da sempre:

Nessuno sa quando sono apparse.

Per il timore delle volontà di un uomo

Non dovevo rischiare che gli dèi mi punissero" [1]

Il testo appartiene a Sofocle e racconta il mito della triste vicenda di Antigone, la figlia di Edipo. Come narra la tragedia, i suoi due fratelli Polinice ed Eteocle per la brama del potere si erano dati reciprocamente la morte. Il re Creonte aveva stabilito di non dare sepoltura a Polinice. Contrariamente alla legge del re, Antigone pur sapendo che avrebbe ricevuto la condanna a morte, preferisce seguire la legge non scritta della pietas e il comando religioso verso i defunti; procede con la funzione della sepoltura. Creonte lo viene a sapere, punisce Antigone rinchiudendola nella caverna fino alla morte e impedisce la sepoltura di Polinice nonostante il figlio Emone gli rimproveri che lui stesso sta abusando della legge perché si arroga onori che spettano solo agli dei… Per alcuni versi, questo testo facilmente databile nel 442 a.C., anno della sua prima rappresentazione ad Atene, anticipa riflessioni che filosofi quali Platone e Aristotele consolideranno con la forza della ragione nei decenni successivi. Alcune esemplificazioni mostrano con evidenza quanto la legge naturale fosse radicata nel pensiero antico e riconosciuta nelle circostanze più diverse. Pur non opponendo la legge naturale a quella positiva, costoro insegnavano che quest'ultima, comunque, era il riflesso della prima. "Su quale idea del giusto si fondava Serse per fare guerra alla Grecia, o suo padre agli sciti?" si domandava Platone quasi retoricamente, e rispondeva: "Quelli hanno agito così, mi pare, secondo la natura del giusto e secondo la legge della natura, e probabilmente non secondo quella istituita da noi" [2]. In termini ancora più espliciti si esprime Aristotele quando nella sua Retorica scrive affermando che le leggi degli uomini hanno un carattere di convenzione e, quindi, non possono essere eterne né obbliganti per tutti e variano a seconda delle culture e dei tempi, mentre la legge naturale obbliga tutti sempre e dovunque: "La legge particolare (νόμος ίδιος) è quella che ogni gruppo di uomini determina in rapporto ai suoi membri, e questi tipi di leggi si dividono in legge non scritta e legge scritta. La legge comune (νόμος κοινός) è quella conforme alla natura (κατά φύσιν). Infatti c’è un giusto e un ingiusto, comuni per natura, che tutti riconoscono per una specie di divinazione, anche se non vi sia nessuna comunicazione o reciproca convenzione" [3]. Circa due secoli più tardi, a Roma, Cicerone farà da eco alle espressioni dei filosofi greci scrivendo nel suo De Republica: "La legge naturale è la diritta ragione, conforme a natura, universale, costante ed eterna, la quale con i suoi ordini invita al dovere, con i suoi divieti distoglie dal male. Essa non comanda né vieta invano agli onesti pur non smuovendo i malvagi. A questa legge non è lecito fare alcuna modifica né sottrarre qualche parte, né è possibile abolirla del tutto; né per mezzo del Senato o del popolo possiamo affrancarci da essa né occorre cercarne il chiosatore o l'interprete. E non vi sarà una legge a Roma, una ad Atene, una ora, una in seguito; ma una sola legge eterna e immutabile governerà tutti i popoli in tutti i tempi, e un solo dio sarà come la guida e il signore di tutti: lui, appunto, che ha concepito, redatto e promulgato questa legge; alla quale l'uomo non può disobbedire senza fuggire da se stesso e senza rinnegare la natura umana, e senza per ciò stesso scontare gravissima pena, quand'anche sfuggisse le punizioni ordinarie" [4]. Le parole di Cicerone non hanno bisogno di particolare commento; esse, comunque, indicano un cambiamento che merita attenzione. Si verifica, infatti, un passaggio per nulla trascurabile dal δίκαιον a ius; esso mostra che quanto era giusto per natura ora viene interpretato come un "diritto naturale", vale a dire, norma di ciò che, secondo natura, è giusto. Ciò che il romano scriveva, a seguito dei filosofi greci, può essere ritrovato in Israele sotto l'espressione "legge di Dio". Nella concezione biblica, infatti, il diritto non si limita alla sola legge. Esso è concepito come un ordine che Dio stesso ha posto nel creato e ha stabilito per il suo popolo, perché impari a trovare la sua volontà e metterla in pratica come premessa e condizione di felicità. Non è un caso che nella sacra Scrittura il tema del diritto venga spesso associato a quello della giustizia. La relazione, comunque, riporta al primato della coscienza che si sente sempre impegnata nella ricerca della giustizia mediante l'applicazione di un "diritto" che non può essere solo ciò che è codificato quanto, piuttosto, ciò che coglie il senso profondo della volontà del Creatore. E' per questo motivo che la concezione biblica aggiunge un'originalità propria alla prospettiva greco-romana: la giustizia non consiste solamente nel rispettare una norma, fosse pure la più perfetta che si possa formulare, e non si conclude neppure nel garantire l'uguaglianza fra tutti i soggetti. La giustizia che si coniuga con il diritto deve essere capace di far emergere il vero bisogno di ogni persona, perché possa trovare il suo posto e svolgere il suo ruolo corrispondente in seno alla comunità. Questa esigenza fondamentale appare più necessaria del pane, a tal punto che la ricerca della dignità dell'uomo permane nella visione biblica come il vero fondamento del diritto e la giustizia non corrisponde pienamente al suo scopo fino a quando non ha realizzato questo compito [5].

Come si nota da questi rapidi riferimenti, da ogni parte si voglia guardare senza preconcetti, ci si incontra con la stessa idea di fondo: esiste una legge, deve esistere una legge, che non ha l'uomo come autore. Questa legge, piuttosto, gli viene donata perché possa indirizzare i suoi atti così da ricercare sempre il bene, per essere felice, ed evitare il male per non incorrere nella pena. Ciò che i Greci chiamavano "giusto per natura", si trasforma presso i Romani in "ius naturale" e nel popolo eletto in mišpat Jhwh. Il cambiamento che si osserva manifesta una sensibilità propria determinata dall'epoca e un progresso che si realizza nello spirito delle culture, non una mutazione del concetto. In epoche diverse e in regioni differenti si ritrova, comunque, un'idea fondamentale e condivisa: esiste un contenuto etico che l'uomo riconosce da sé, immediatamente, quasi in modo istintivo, come una norma a cui attenersi per poter vivere conforme a ciò che lui è e che trova riscontro in quello spazio immenso e diversificato che è la natura. Lo stesso insegnamento si ritrova in Paolo agli albori della Chiesa. L'apostolo nella sua lettera ai Romani lascia trasparire chiaramente che anche i pagani "che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, ed essi pur non avendo una legge, sono legge a se stessi" (Rm 2,14). Come dire: anche quanti non credono sono guidati da una legge; pur non avendo ricevuto una rivelazione, infatti, esprimono un giudizio sia sul proprio comportamento sia su quello degli altri. Esiste, quindi, una legge che il creatore ha scritto nella loro natura. La conclusione a cui Paolo giunge è coerente: i pagani "dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti" (Rm 2,15). Non trovo espressione migliore come commento a queste parole dell'apostolo che la meditazione di s. Agostino quando scrive: "Per mano del Creatore, la Verità ha scritto nei nostri cuori queste parole: "Poiché la verità ha scolpito nei nostri cuori, per la mano stessa del Creatore, il principio: Ciò che non vuoi sia fatto a te, non farlo agli altri. A nessuno fu mai permesso di ignorare questo comandamento, anche prima che fosse data la legge, in modo che potessero esser giudicati anche coloro che non avrebbero avuto la legge. Ma, affinché gli uomini non si lamentassero che mancava loro qualcosa, fu scritto sulle tavole ciò che essi non riuscivano a leggere nel proprio cuore. Non è vero, infatti, che essi non avessero in cuore alcuna legge scritta; solo che si rifiutavano di leggerla. Fu allora posto dinanzi ai loro occhi ciò che avrebbero dovuto vedere nella coscienza; e l'uomo fu spinto a guardare nel suo intimo dalla voce di Dio, proveniente, per così dire, dal di fuori" [6]. Insomma, per dirla con un'espressione sintetica di san Tommaso, la legge naturale è "la partecipazione della creatura razionale alla legge eterna" [7]. In poche parole, Tommaso riesce a descrivere il senso profondo della legge naturale come l'esercizio che ogni uomo compie della propria ragione e della libertà; queste, infatti, sanno riconoscere quanto è conforme, coerente e conveniente alla persona per raggiungere la piena realizzazione di sé. Insomma, più si cresce nella comprensione di sé in maniera coerente a ciò che si è, e maggiormente l'uomo si inserisce in quel progetto di vita che lo realizza perché lo immette nella conoscenza della verità. Già questa considerazione rende evidente che quando si parla di legge naturale non si fa riferimento a una visione astratta dell'uomo, ma a quella peculiare e concreta identificata nel suo essere imago Dei che si esprime pienamente nel Logos per cui, nella misura in cui ognuno corrisponde a questa chiamata, e si fa discepolo di Cristo, diventa anche "principio" dei suoi stessi atti; cioè capace di produrre principi morali.

Alla fine del medioevo, come si sa, iniziano a svilupparsi teorie che sottolineano maggiormente la dimensione volontaristica. Il termine volontarismo, richiama alla mente, per il nostro discorso, due personaggi; in primo luogo Duns Scoto (1266-1308) e successivamente Ockham (1288-1349). Il primato della volontà porta l'eclissi sull'intelletto e, inevitabilmente, lo stesso concetto di legge naturale viene a modificarsi. Ius quia iussum rende evidente il passaggio che si è venuto a compiere; se di Dio possiamo conoscere solo la sua voluntas ordinata -come ritiene Duns Scoto- ne segue non solo l'impossibilità di poter codificare una conoscenza naturale di Dio, ma di conseguenza che la bontà di un'azione risiederà solo nel fatto che è ordinata da Dio. Venendo a mancare il rapporto con la verità e la bontà, si impone il principio della liceità o meno di un atto. Insomma, per dirla con Lutero, il "rasoio di Ockham" si fa sentire come eliminazione di fatto del riferimento alla legge naturale, fino a giungere all'eccesso di queste posizioni con Hobbes nel suo Leviatan: "In una città costituita, l’interpretazione delle leggi di natura non dipende dai dottori, dagli scrittori che hanno trattato di filosofia morale, ma dall’autorità civile. Infatti le dottrine possono essere vere: ma è l’autorità, non la verità, che fa la legge" [8]. E' in questa posizione volontaristica, alla fine, che risiede il grande equivoco giunto indenne fino ai nostri giorni, secondo cui la legge naturale è una concezione tipicamente cristiana. Se la conoscenza di Dio è ridotta alla sua volontà e se questa è conosciuta dalla sua rivelazione, segue logicamente che senza di questa non vi è alcuna possibilità di giungere a una visione naturale e, per il nostro tema, l'identificazione tra legge naturale e rivelazione diventa inevitabile. Non è il caso di ripercorrere gli ulteriori sviluppi che la legge naturale ha avuto nel corso dei secoli successivi. All'impostazione volontaristica di Ockham –che troverà riscontro nelle posizioni di Lutero e Calvino- risponderà la prospettiva più razionalista di Francisco de Vitoria (1483- 1546) e di Grozio (1583-1645) con la sua teoria giusnaturalista. In un periodo di crescente autonomia della ragione e di divisione tra i popoli a causa della divisione tra i cristiani, viene meno ogni possibile riferimento a Dio; la legge naturale nella visione di Grozio si impone da sé etsi Deus non daretur, perché si comprende che esiste un ordine necessario e immutabile che ha in se stesso una propria razionalità. Ciò che si verifica, in questo frangente, è lo slittamento dall'oggettività della legge naturale alla soggettività del diritto naturale con il quale vengono riconosciuti diritti innati e inalienabili che la ragione pone come fondamento per il vivere sociale [9]. In una parola, il riferimento alla storia mostra che per parlare con coerenza del "diritto naturale" è necessario far riferimento alla "legge naturale" di cui rappresenta il contenuto oggettivo. Nelle sue determinazioni fondamentali, questo diritto è immutabile, ma la consapevolezza del suo valore storico, dei contenuti che esprime e dell'incidenza che questi hanno presso i singoli e le società, matura con il crescere della coscienza etica che non può fermarsi mai, pena l'interruzione stessa del progresso spirituale dell'umanità. Questo breve panorama, insomma, tende a evidenziare che la legge naturale non è un'invenzione cattolica, come qualcuno vorrebbe liquidare in modo semplicistico per non affrontare nei termini dovuti l'importanza e l'attualità del tema. Dietro questa espressione si nasconde la maturazione della ragione umana in diverse poche storiche nel suo tentativo di saper cogliere il reale e poter dare risposta intelligente ai permanenti interrogativi che pone.

 

 

Il contesto contemporaneo non è meno complesso; per diversi decenni, infatti, il tema della legge naturale è stato essenzialmente dimenticato. Le cause sono molteplici, primo fra tutte, a nostro avviso il modificarsi del concetto stesso di natura in ambito filosofico. Ciò che appare immediato, comunque, è che l'indifferenza verso questi contenuti ha impoverito non solo la scienza, priva ormai di criteri di giudizio che vadano oltre la giusta e doverosa ricerca non soggetta ai soli interessi economici, ma soprattutto i comportamenti delle persone. La ricerca scientifica, per alcuni versi, sembra monopolizzata dalla sola sperimentazione sulla natura, alterando di conseguenza il concetto stesso; la tratta, infatti, come semplice materia manipolabile così che ne scaturisce un distacco di responsabilità da non coinvolgere più nel mantenimento di un ordine che sovrasta l'uomo e non è determinato dalla sua sola volontà. Alla stessa stregua, i comportamenti delle generazioni quando non hanno più un fondamento nella natura, ma sono orientati in gran parte dal desiderio effimero, vengono privati della loro libertà, e cadono facilmente preda dell'arbitrio. Spiace constatare che da questa generalizzata debolezza non si sono salvati neppure diversi Parlamenti i quali hanno legiferato non solo prescindendo da quanto inscritto nella legge della natura, ma giungendo perfino a giustificare comportamenti in netto contrasto con essa, in forza di un ipotetico diritto ritenuto fondamentale solo per l'imporsi dell'ideologia sottostante. Lo ius quia iussum del passato si trasforma in molte società nello ius quia consensum. Per noi, impenitenti metafisici, la verità non deriva dal consenso, ma da un fondamento ben più solido. La legge naturale, come venne concepita nell'antichità, aveva il suo spazio vitale perché rientrava in una lettura religiosa del mondo; oggi le diverse forme di secolarizzazione hanno modificato il modo di porsi dinanzi ad esso e, di conseguenza, la stessa legge naturale ha subito una comprensibile anche se ingiustificata emarginazione.

            Se viene meno il richiamo a una legge impressa nella natura che va oltre le diverse culture degli uomini, si corre il rischio di cadere in un primato della cultura che tutto domina e tutto condiziona. Nessuno, tuttavia, può essere prigioniero della cultura. Nella misura in cui essa è un prodotto nell'azione personale e sociale deve esprimere una tensione verso la pienezza della verità e non un vincolo che rende impossibile la sua conquista. Per questo è necessario il rinvio alla legge della natura come garanzia per ogni persona di essere libera e responsabile nell'affermare la propria dignità non in riferimento alle convenzioni degli uomini, ma alla verità profonda della propria essenza personale [10]. E' quindi auspicabile che si intraprenda la strada per una rinnovata comprensione della legge naturale –dei diritti e doveri che da essa scaturiscono- e di un linguaggio più coerente con le istanze del mondo contemporaneo, perché si possa percepire il valore di una norma non scritta che permane come strumento di unità per tutto il genere umano e come espressione concreta di un'impronta che Dio ha voluto lasciare nel creato come segno del suo amore. Riprendere seriamente tra le mani la problematica circa la legge e il diritto naturale corrisponde al tentativo, che dura permanentemente nella storia del pensiero, di dare risposta all'interrogativo circa la possibilità di una conoscenza oggettiva per quanto concerne l'etica, indipendentemente da una rivelazione cristiana. Insomma, esiste per l'umanità qualcosa di comune, dei valori, delle norme che sono valide sempre, per tutti, prescindendo dalla propria cultura, dalla religione e dal sistema giuridico? Non solo. Quale discernimento è possibile praticare su questi valori e come realizzarli? Gli sforzi presenti nel mondo contemporaneo circa la giustizia, la pace, la salvaguardia del creato, la dignità umana e i diritti universali svaniscono nonostante tutte le nostre buone intenzioni se non sono radicate in un fondamento valoriale che vada oltre l'assenso politico. Proprio nei giorni scorsi, nella sua visita in Gran Bretagna e nello storico discorso tenuto nella Westminster Hall dinanzi al Parlamento britannico e agli uomini di cultura, Benedetto XVI è ritornato con maggior forza su questo stesso tema ricordando la problematica della legge naturale anche se non ha menzionato specificamente l'espressione. Ponendo alcuni interrogativi che sono di evidente attualità nella nostra società, il Papa ha detto: "Quali sono le esigenze che i governi possono ragionevolmente imporre ai propri cittadini, e fin dove esse possono estendersi? A quale autorità ci si può appellare per risolvere i dilemmi morali? Queste questioni ci portano direttamente ai fondamenti etici del discorso civile. Se i principi morali che sostengono il processo democratico non si fondano, a loro volta, su nient’altro di più solido che sul consenso sociale, allora la fragilità del processo si mostra in tutta la sua evidenza. Qui si trova la reale sfida per la democrazia… La questione centrale in gioco, dunque, è la seguente: dove può essere trovato il fondamento etico per le scelte politiche? La tradizione cattolica sostiene che le norme obiettive che governano il retto agire sono accessibili alla ragione, prescindendo dal contenuto della rivelazione. Secondo questa comprensione, il ruolo della religione nel dibattito politico non è tanto quello di fornire tali norme, come se esse non potessero esser conosciute dai non credenti – ancora meno è quello di proporre soluzioni politiche concrete, cosa che è del tutto al di fuori della competenza della religione – bensì piuttosto di aiutare nel purificare e gettare luce sull’applicazione della ragione nella scoperta dei principi morali oggettivi" [11]. La legge naturale, quindi, come principio a cui ricorrere, in una società laica e pluralista, per una rinnovata presentazione dei diritti dell'uomo. Questa legge diventa garanzia di libertà e fondamento per un giudizio etico che si relazioni al vero e al bene senza lasciarsi imbrigliare nelle secche del positivismo. In fondo, è solo con il riferimento a questa legge e a questo diritto che diventa possibile affermare quanto i diritti a cui si fa appello, ad esempio nella Dichiarazione universale, non sono un'invenzione dovuta all'ingegno degli uomini di epoche storiche remote, ma la riscoperta perenne che ogni generazione compie di un contenuto che le viene offerto come puro dono. Quanto più cresce la conoscenza del creato e dell'uomo in esso, tanto più si tocca con mano il mistero che circonda la natura e l'esistenza personale. Più la scienza progredisce nel suo indagare sull'universo con le sue forme, e maggiormente si scopre l'inadeguatezza dello strumento per entrare fino in fondo nel cosmo. Se si vuole, la stessa osservazione può valere per il diritto. "Forse nessuna epoca meno della nostra ha saputo che cosa sia il diritto. E' il comando del potere oppure la decisione dei giudici; una pluralità di ordinamenti chiusi oppure una unità sistematica; una prescrizione esteriore oppure comunitaria o, addirittura, interiore; l'imperativo della storia dello Spirito oppure dei rapporti di produzione?" [12]. L'interrogativo del giurista non può rimanere senza risposta; obbliga in qualche modo a fare chiarezza, ma soprattutto a cercare di individuare la fonte stessa del diritto e il suo fondamento inalienabile. Se il diritto si limitasse a un accordo tra gli individui oppure a una convenzione tra gli Stati o a una ratifica di privilegi e obblighi da parte dei cittadini saremmo sempre all'insegna dell'arbitrarietà. Con ragione Benedetto XVI ha potuto affermare: "E' opportuno ricordare che ogni ordinamento giuridico a livello sia interno che internazionale, trae ultimamente la sua legittimità dal radicamento nella legge naturale, nel messaggio etico inscritto nello stesso essere umano. La legge naturale è, in definitiva, il solo valido baluardo contro l'arbitrio del potere o gli inganni della manipolazione ideologica. La conoscenza di questa legge iscritta nel cuore dell'uomo aumenta con il progredire della coscienza morale" [13]. Sulla stessa lunghezza d'onda, si muoveva Giovanni Paolo II quando, rivolgendosi al mondo politico in occasione del Giubileo dell'anno 2000 diceva: "Una parola particolare vorrei ora rivolgere a coloro, tra Voi, che hanno il delicatissimo compito di formulare ed approvare le leggi: un compito che avvicina l'uomo a Dio, Legislatore supremo, dalla cui Legge eterna ogni legge attinge, in ultima analisi, la sua validità e la sua forza obbligante. Proprio a questo si intende alludere quando si afferma che la legge positiva non può contraddire la legge naturale, null'altro essendo quest'ultima se non l'indicazione delle norme prime ed essenziali che regolano la vita morale, e quindi di quelli che sono i caratteri, le esigenze profonde e i valori più alti della persona umana. Come già ho avuto modo di affermare anche nell'Enciclica Evangelium vitae, "alla base di questi valori non possono esservi provvisorie e mutevoli ‘maggioranze’ di opinione, ma solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva che, in quanto ‘legge naturale’ iscritta nel cuore dell'uomo, è punto di riferimento normativo della stessa legge civile" (n. 70). Questo significa che le leggi, quali che siano i campi in cui il legislatore interviene o è obbligato ad intervenire, devono sempre rispettare e promuovere - nella varietà delle loro esigenze spirituali e materiali, personali, familiari e sociali - le persone umane. Perciò una legge che non rispetti il diritto alla vita - dalla concezione alla morte naturale - dell'essere umano, quale che sia la condizione in cui si trova - sia esso sano o malato, ancora allo stato embrionale, vecchio o in stadio terminale - non è una legge conforme al disegno divino" [14].

            Se si ricerca la vera pace, come il mondo di oggi sembra anelare, che non è solo assenza di guerra, ma rispetto reciproco nell'accettazione dell'altro debellando ogni forma di discriminazione, allora sarà necessario puntare lo sguardo proprio alle esigenze etiche, universali ed immutabili, per garantire la via di successo sia nelle relazioni interpersonali che internazionali. D'altronde, promuovere la ricerca di una strada che possa garantire il pieno e libero agire delle persone per il loro riferimento a una norma universale, è un servizio che la Chiesa deve offrire proprio per sostenere il principio della dignità della persona. Una verità raggiunta con l'apporto fondamentale della ragione e sostenuta dalla forza della rivelazione come potrebbe umiliare? Essa non potrebbe essere altro che garanzia di libertà per ogni persona e, quindi, di tutti. Ciò che corrisponde alla dignità e inviolabilità di ogni essere umano, infatti, è prodromo per il raggiungimento del bene di tutti. Come si legge in Veritatis splendor: "Di fronte alle norme morali che proibiscono il male intrinseco non ci sono privilegi né eccezioni per nessuno. Essere il padrone del mondo o l'ultimo «miserabile» sulla faccia della terra non fa alcuna differenza: davanti alle esigenze morali siamo tutti assolutamente uguali" (n. 96).

            Viviamo un contesto culturale che, di fatto, sostiene una pericolosa separazione tra verità e libertà, frutto di una visione frammentaria della realtà, che tende a isolare l'autonomia di ciascuno come una sfera di possesso blindato, senza alcun riferimento a contenuti oggettivi che determinano l'eticità dei propri atti e il giudizio che la coscienza è chiamata a dare su di essi. Se, da una parte è necessario giungere a una critica di questa inspiegabile e ingiustificata separazione, dall'altra, è necessario trovare le strade per superare la frattura e riconciliare nell'unità i due elementi per consentire di ritrovare la giusta direzione dei nostri comportamenti. In questo frangente e su questo tema, credenti e non credenti hanno un compito di grande responsabilità. Perseguire sul cammino di una rinnovata presentazione della legge naturale può essere un servizio di genuina riflessione che viene posto come contributo per il progresso della società e dello spirito del nostro tempo. Perseguire sulla strada di accontentare il nostro contemporaneo nella sua richiesta di diritti che stridono con la norma morale naturale non credo che sia corretto e difficilmente perseguibile per lungo tempo. Esaltare la libertà fino a farne un assoluto come fonte stessa dei valori è una trappola da cui stare lontani. Perdere o emarginare il senso della trascendenza rinchiudendo l'uomo sempre di più dentro se stesso è un percorso che la storia ha già dimostrato fallimentare. Molti segni sono posti dinanzi a noi per provocare la mente e l'azione sociale e politica ad uscire da una visione individualista per entrare in quella relazionalità che identifica al meglio l'essere persona. Una relazionalità che porta a riconoscere un mistero ancora più grande della nostra individuale enigmaticità, la quale consente di trovare in maniera definitiva la risposta alla domanda di senso. Questa non allontana da noi, ma consente di ritrovare se stessi in quel orizzonte di verità che si dischiude perennemente alla ragione e che trova nella fede il suo sostegno più grande.

 

 

X Rino Fisichella

 

[1] Sofocle, Antigone, v. 449-460.

[2] Platone, Gorgia, 483 c 484.

[3] Aristotele, Retorica, I, XIII, 2 (1373 b 4-11).

[4] Cicerone, La Repubblica, 3,22,33.

[5] Cfr. il Discorso di Benedetto XVI all'ONU: "I diritti umani sono sempre più presentati come linguaggio comune e sostrato etico delle relazioni internazionali. Allo stesso tempo, l’universalità, l’indivisibilità e l’interdipendenza dei diritti umani servono tutte quali garanzie per la salvaguardia della dignità umana. È evidente, tuttavia, che i diritti riconosciuti e delineati nella Dichiarazione si applicano ad ognuno in virtù della comune origine della persona, la quale rimane il punto più alto del disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia. Tali diritti sono basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo e presente nelle diverse culture e civiltà. Rimuovere i diritti umani da questo contesto significherebbe restringere il loro ambito e cedere ad una concezione relativistica, secondo la quale il significato e l’interpretazione dei diritti potrebbero variare e la loro universalità verrebbe negata in nome di contesti culturali, politici, sociali e persino religiosi differenti. Non si deve tuttavia permettere che tale ampia varietà di punti di vista oscuri il fatto che non solo i diritti sono universali, ma lo è anche la persona umana, soggetto di questi diritti. La vita della comunità, a livello sia interno che internazionale, mostra chiaramente come il rispetto dei diritti e le garanzie che ne conseguono siano misure del bene comune che servono a valutare il rapporto fra giustizia ed ingiustizia, sviluppo e povertà, sicurezza e conflitto. La promozione dei diritti umani rimane la strategia più efficace per eliminare le disuguaglianze fra Paesi e gruppi sociali, come pure per un aumento della sicurezza. Certo, le vittime degli stenti e della disperazione, la cui dignità umana viene violata impunemente, divengono facile preda del richiamo alla violenza e possono diventare in prima persona violatrici della pace. Tuttavia il bene comune che i diritti umani aiutano a raggiungere non si può realizzare semplicemente con l’applicazione di procedure corrette e neppure mediante un semplice equilibrio fra diritti contrastanti… L’esperienza ci insegna che spesso la legalità prevale sulla giustizia quando l’insistenza sui diritti umani li fa apparire come l’esclusivo risultato di provvedimenti legislativi o di decisioni normative prese dalle varie agenzie di coloro che sono al potere. Quando vengono presentati semplicemente in termini di legalità, i diritti rischiano di diventare deboli proposizioni staccate dalla dimensione etica e razionale, che è il loro fondamento e scopo… i diritti umani debbono esser rispettati quali espressione di giustizia e non semplicemente perché possono essere fatti rispettare mediante la volontà dei legislatori", 18 aprile 2008.

 

[6] Agostino, Enarrationes in Psalmos 57,1.

[7] Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I,II,91,2: "Lex naturalis nihil aliud est quam participatio legis aeternae in rationali creatura"

[8] TH. Hobbes, Leviathan, Parte II, c. 26

[9] Per una riflessione recente sulla problematica cfr. R. Gerardi (ed.), La legge morale naturale. Problemi e prospettive, Roma 2007; L. S. Cunningham (ed.), Intractable Disputes About the Natural Low, University of Notre Dame, 2009.

[10] E' quanto scriveva a più riprese Giovanni Paolo II: "E' la condizione perchè l'uomo non sia prigioniero di nessuna delle sue culture, ma affermi la dignità personale nel vivere conformemente alla verità profonda del suo essere",Veritatis splendor, 53.

[11] Benedetto XVI, Discorso alla Westminster Hall, 17 settembre 2010.

[12] S. Cotta, "Il concetto di natura del diritto", in Studium, 83 (1987), 533.

[13] Benedetto XVI, Discorso ai Partecipanti al Congresso internazionale sulla Legge morale naturale, Lunedì 12 febbraio 2007.

[14] Giovanni Paolo II, Giubileo dei Governanti e dei Parlamentari, 4 novembre 2000.