Nel Grembo di tua madre

Relazione della Prof.ssa Gabriella Gambino

Nel grembo di tua madre

Il moderno diritto al figlio ed il giudizio delle due madri di Re Salomone

di Gabriella Gambino

      1. Il ripensamento della maternità come luogo femminile della generazione è un fenomeno che nella modernità sta acquisendo delle sfaccettature complesse. Investita da capacità di controllo e di gestione farmacologica e tecnologica che stanno trasformando forme e tempi della procreazione e della nascita, la maternità si sta anche corredando di situazioni giuridiche assolutamente inedite e controverse. Insistentemente ridotta a mera capacità procreativa e ricondotta a diritto riproduttivo delle donne, la maternità è ormai destinataria e risultato di interventi e pratiche quotidiane - la contraccezione, l’aborto, la fecondazione artificiale, ma anche la diagnosi prenatale e la selezione fetale - che sempre più domandano l’intervento della bioetica e del diritto, non solo per analizzare le questioni morali e legislative che emergono dalla manipolazione di corpi e vite, ma ancor prima per tentare una pre-comprensione delle dimensioni etiche, culturali e filosofiche più recenti della maternità.

In particolare, le recenti discussioni che hanno investito la pubblica opinione e i giuristi in relazione alla legittimità costituzionale di alcune norme della legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita in Italia - soprattutto con riguardo al divieto di fecondazione eterologa, di selezione preimpiantatoria, o all’abolizione di un limite nel numero di embrioni fecondabili in ogni ciclo di fecondazione assistita - hanno ripetutamente messo in gioco l’idea di un presunto “diritto al figlio” che, sebbene non abbia ancora trovato un fondamento nel nostro ordinamento, sembra trovare conforto in una cultura giuridica, soprattutto di matrice sovranazionale non priva di implicazioni culturali ad ampio raggio sul pensiero più comune.

Ne è prova il fatto che nella letteratura bioetica e giuridica più recente si incontrano espressioni come bambini “à la carte”[1], confezionati e selezionati con i migliori requisiti imposti dai futuri genitori: sesso, salute, e perfino malattie selezionate con meticolosa attenzione, purché il bambino possa essere un’espressione narcisistica del proprio genitore[2]. Due soli esempi, già noti all’opinione pubblica: nel 2002 una coppia di lesbiche completamente sorde si rivolse a un centro di fecondazione assistita per ottenere una figlia sorda. Dopo la nascita della bambina, le due donne si rifiutarono di farle impiantare un apparecchio acustico nonostante le ampie possibilità della bimba di udire da un orecchio[3]. Nel 2010, un controverso articolo sul New York Times Magazine mostrava le foto delle due bambine di una nota scrittrice americana, nate a pochi giorni di distanza da due madri surrogate. La donna, infatti, per evitare i rischi di una gravidanza gemellare, era riuscita ad ottenere due contratti di maternità surrogata pur di avere due figlie. Ma il mercato della fecondazione assistita non si ferma qui: centinaia di giovani uomini e donne vendono periodicamente i propri gameti, negli Stati Uniti si diffondono gli “ovociti col pedigree” per avere il “figlio perfetto”[4], e i mezzi di comunicazione di massa in Spagna promuovono la cosiddetta “riproduzione intra-familiare”: nonne che fanno da madri surrogate per mettere al mondo i propri nipotini quando i figli sono sterili; madri che congelano i propri ovuli per donarli alle figlie sterili, sorelle che si scambiano gli ovuli, figlie che si fanno fecondare con i gameti dei propri genitori per mettere al mondo i propri fratelli[5]. Ad oggi sono solo intuibili i rischi derivanti dall’impatto psicologico e sociale che queste forme estreme di ricorso alla fecondazione assistita potranno avere sui rapporti all’interno di queste famiglie, e non da ultimo sui bambini che nascono. Ma si pensi anche alla realtà della fecondazione artificiale e dell’adozione che alcuni tribunali europei riconoscono alle coppie omosessuali in nome del tanto invocato diritto al figlio[6].

 

2. In queste situazioni ciò che emerge è la tendenza – non nuova nella storia delle donne - a rimuovere il significato autentico della maternità, ridotta a decisione riproduttiva. La novità introdotta dal mercato della fecondazione artificiale è che se un tempo la scelta procreativa si limitava alla gestione della fecondità, ora le donne possono gestire la loro sterilità: la fecondazione assistita, infatti, con tutte le sue varianti (extra-corporea, eterologa, surrogata) e il suo modo di essere “prescrittiva”, “predittiva”, “preventiva” e  “selettiva” dischiude delle possibilità inedite di ottenere i figli che desideriamo, anche quando non potremmo averne. Trasformando le possibilità della scienza in diritti soggettivi per l’ordinamento. Così la sterilità può essere considerata alternativamente come una “malattia giuridica” a cui è giusto porre rimedio con il ricorso ad una legge che considera “terapeutica” la fecondazione artificiale, oppure può essere percepita come uno stato di “salute giuridica”[7], che si può perseguire non solo mediante la soppressione meccanica e ormonale della capacità procreativa, ma anche con la menomazione più o meno irreversibile dell’integrità fisica, con interventi di sterilizzazione procurata e consentita[8].

Vero è che il diritto al figlio oggi viene invocato non solo con riferimento a condizioni soggettive di sterilità, che richiederebbero forme estreme di intervento come la fecondazione eterologa, ma anche in relazione a casi di coppie fertili portatrici di patologie genetiche trasmissibili ai figli.  Al diritto si chiede allora di legittimare la ferma volontà della coppia di ottenere un figlio – solo se sano – incurante della selezione eugenetica che questa pratica comporta. Su questo punto la legge 40/2004 è già stata più volte investita da ricorsi volti ad abbattere il divieto di selezione preimpianatoria degli embrioni in ragione del diritto a diventare genitori[9]. In questo contesto, di recente, la sentenza della Corte Europea dei diritti umani, sul caso «Costa e Pavan vs. Italy», ha stabilito che esiste un diritto per le coppie fertili, ma portatrici di malattie genetiche, di accedere alla fecondazione artificiale per poter selezionare gli embrioni. Il diritto di avere un figlio sano, secondo la Corte, rientrerebbe nella sfera del diritto alla privacy di ciascuno nel costruirsi una vita familiare: un aspetto al quale i nostri giuristi dovrebbero prestare particolare attenzione, visto che il rinvio alla privacy in ogni dimensione dell’esistenza appartiene alla tradizione giuridica americana, ma così concepito non può trovare spazio nel nostro ordinamento. La famiglia, in particolare, gode di una specifica tutela costituzionale – pubblica, pertanto – proprio in virtù del suo essere una società naturale (art. 29 cost.), un’istituzione, che proprio per la sua identità e le sue caratteristiche – la possibilità della nascita dei figli e l’insorgenza di rapporti naturali padre-madre-figlio - ha un rilievo pubblico al quale non si può sottrarre. Il rifiuto assoluto dell’interferenza dello Stato nelle scelte private delle coppie che decidono di ricorrere alla PMA, nel nome di una violazione della libertà di autodeterminazione procreativa, non ha fondamento giuridico. Tanto più se si pensa che, mentre il concepimento di un figlio che avviene nell’incontro sessuale può relegarsi esclusivamente nell’ambito della sfera privata e familiare, non altrettanto può dirsi per la fecondazione che avviene con le tecnologie riproduttive, collocate in una dimensione collettiva e coinvolgenti la responsabilità pubblica di tutti i soggetti in esse coinvolti. Se il diritto serve a garantire le dimensioni relazionali della coesistenza e l’identità di ciascuno, esso non può disinteressarsi del modo in cui un individuo viene messo al mondo, se queste modalità possono pregiudicare il suo bene e la sua identità, allo stesso modo in cui lo Stato si riserva di intervenire qualora la famiglia non sia in grado di provvedere al mantenimento o all’educazione dei figli[10].

 

3. In questo ridursi della procreazione umana a mera “funzione” riproduttiva e riproducibile, e del diritto a strumento di realizzazione dei desideri, si manifesta oggi più che mai l’ambivalenza profonda del desiderio di maternità, che la letteratura internazionale, dall’antichità ad oggi, ha ripetutamente provato a tematizzare: come amore generoso e come pretesa di un figlio. Si pensi all’opera teatrale di Bertolt Brecht, Il cerchio di gesso del Caucaso, ma ancor più, per la sua straordinaria modernità, al racconto delle due madri innanzi al giudizio di Re Salomone[11].

La storia è nota: due prostitute vivevano insieme e avevano partorito due bambini. Una notte il figlio di una delle due donne muore e lei scambia i bambini, lasciando tra le braccia dell’altra donna addormentata il corpicino del bambino morto. Il giorno dopo, osservatolo bene, la donna si accorse che il bambino non era il figlio che aveva partorito. Recatesi innanzi al Re, chiesero a lui di pronunciarsi con un giudizio e di decidere chi tra di esse avesse diritto a tenersi il bambino vivo. Di fronte all’ordine del re di tagliare a metà il bambino e di darne metà all’una e metà all’altra, la vera madre implorò il re di dare il bambino all’altra donna purché rimanesse in vita; l’altra, invece, invidiosa, chiese al re di tagliarlo, purché non ne fosse privata. A quel punto il Re, certo della vera maternità, ordinò che il bambino fosse consegnato a sua madre.

 

4. Il racconto, nella sua semplicità, si presenta con una struttura tipicamente giuridica (le due donne “vennero” e “stettero in piedi davanti a lui”, come davanti a un giudice) e contiene un linguaggio carico di significati - oserei dire - etici e antropologici tipicamente moderni sulla maternità. Le due donne, anzitutto, sono sole, non hanno marito e i bambini di cui si parla non hanno padre, quantomeno la figura paterna è anonima e sconosciuta. Esattamente come accade nel caso della fecondazione eterologa invocata sulla base di un preteso diritto al figlio. Due elementi degni di nota, pertanto: la debolezza della figura paterna, che resta sullo sfondo; la solitudine della donna che con un partner sterile riesce ad imporre nella coppia il suo bisogno profondo di maternità, un bisogno identitario forte e al tempo stesso espressione di una fragilità estrema, un bisogno nel quale ella focalizza il senso della propria femminilità.

Nel racconto la situazione è drammatica: nessuno può testimoniare né della nascita né della morte dei bambini, la posta in gioco è un bambino preteso. Per le due donne quel bambino è ciò che le costituisce come madri, è più l’insegna visibile della loro maternità, che non un individuo davvero amato. E come avviene nei casi giudiziari più recenti, in cui si citano il diritto al figlio, alla salute riproduttiva, a costruirsi una vita privata e familiare, e al figlio sano, il problema appare confuso e senza via d’uscita. Il racconto assume i contorni dell’arringa e la donna a cui è stato sottratto il bambino sembra capace di un attento discernimento dei fatti. L’altra si limita a ripetere quel che la prima ha detto. Una delle due mente: ha ucciso il bambino perché ci si è coricata sopra: è l’immagine di un amore materno soffocante, possessivo, questa donna ha un desiderio mimetico di maternità, vuole un bambino per essere uguale all’altra, soffre.

Come scrive Emmanuel Lévinas ne “Il tempo e l’altro”, sofferenza è l’evento in cui l’esistente è arrivato a realizzare fino in fondo la sua solitudine, cioè tutta l’intensità del suo legame con se stesso, e in cui si trova in relazione con l’evento che non assume, nei confronti del quale non può più potere[12]. Con parole più semplici, Lévinas ci indica quel passo antropologico – che solo l’essere umano è in grado di compiere nella sofferenza - che la presenza della tecnologia riproduttiva rischia di impedire ad ogni donna desiderosa della maternità: andare fino in fondo al proprio dolore di sterilità, prenderlo tra le mani, osservarlo e dargli un significato. La tecnologia tentacolare, che trova una soluzione per ogni problema, si insinua in quella che potrebbe essere una sterilità feconda sul piano esistenziale per farne una fecondità avida e non generosa, che vuole pur sempre potere. Come spiegava Jung, là dove manca l’amore è la potenza che occupa il posto vacante[13]. Quella volontà di potenza che oggi - nell’ambito della cultura pro-choice - contrappone prepotentemente e in maniera altalenante il diritto di non avere figli al diritto al figlio[14], riducendo un’istanza profondamente etica – quella della maternità – all’arido linguaggio dei diritti umani nella loro versione più fragile: quella che si accontenta di fondarsi sul desiderio, sulla volontà autoreferenziale, quella in cui i diritti non vengono presi sul serio (per utilizzare una notissima espressione di Ronald Dworkin) bensì utilizzati per formalistici giochi di parole nell’interpretazione della normativa vigente.

Di fronte a tanta confusione, il compito di Salomone è arduo, deve interpretare, deve riuscire a far emergere l’autentico desiderio di vita della vera madre. Non può appellarsi solo ai buoni sentimenti delle donne, che non sono sufficienti a fondare un’autentica maternità. E’ questo lo snodo che oggi si fatica a comprendere: il sentimento, legato alla dimensione affettiva della coscienza, e non piuttosto a quella razionale, è altalenante, è fluido[15], è desiderio di amare, è volontà di possedere e di non possedere… in quanto tale sfugge al diritto e si sottrae alla giustizia perché è servo dell’individuo. In fondo il sentimento resta il luogo dove maggiormente si può manifestare oggi la potente ambivalenza della femminilità – di cui si è accennato sopra - che oscilla tra il desiderio e il rifiuto della maternità[16]. “[…] Noi donne, nel gesto naturale e sacro che è il mettere al mondo dei figli, nell’aprire alla vita, contemporaneamente apriamo alla morte”[17]. Ma poiché fatichiamo ad elaborare il senso della morte, non riusciamo più nemmeno ad elaborare il senso autentico della vita e del dare la vita. “In un certo senso – scrive Silvia Vegetti Finzi – l’enigma della maternità ha sostituito l’enigma della sessualità, quello che Freud chiamava il “continente oscuro della femminilità” [18].

Jung, studiando l’archetipo di madre, ossia quell’immagine primordiale che ciascuno di noi possiede nel proprio inconscio, definiva queste due dimensioni estreme del materno come la “madre amorosa” e la “madre terrificante”: da un lato, colei che è saggia, benevola, protettiva, che genera, nutre, soccorre; dall’altro, colei che rappresenta il segreto, l’occulto, che divora, possiede e genera angoscia[19].

Nel racconto di Salomone, le conseguenze di quest’ambivalenza sono laceranti: l’unico esito possibile della pretesa giuridica è la morte del bambino. La contesa è un gioco perverso, che ha come effetto una violenza, non sa arrestarsi di fronte al sacrificio. La madre avida non esita: “Non sia né mio né tuo”, prevalga la fredda giustizia. Rieccheggiano le parole di bioeticisti come John Harris, Peter Singer e Julian Savulescu, che in un articolo intitolato “Beneficienza procreativa: perché dobbiamo selezionare i nostri figli”, si dichiara a favore della selezione preimpiantatoria per far nascere figli intelligenti e del sesso desiderato[20].

Solo la consapevolezza profonda della vera madre riesce ad evitare il peggio: le sue viscere si commuovono, e scopre che colui che aveva generato non le appartiene più. Preferisce privarsi del figlio pur di salvarlo, la logica della giustizia non conta, deve prevalere il calore dell’amore. E Salomone, che sa discernere il bene dal male, non ha dubbi: “Quella è sua madre”; la madre generosa che mette fine alla menzogna e al caos.

 

5. Anche nella realtà odierna, benché sul piano intuitivo risulti controverso, il diritto al figlio viene abilmente costruito a partire dalla ragione, dalla giustizia e dal diritto. Nella specie, esso si insinua nell’alveo di alcuni nuovi diritti già invocati dalla giurisprudenza e dalla legislazione più recente: il diritto alla salute fisica e psichica della donna, il diritto alla maternità, alla procreazione cosciente e responsabile, il diritto al figlio sano, il diritto alla salute riproduttiva e, non da ultimo, il tanto invocato “diritto alla vita privata e familiare” (art. 8 CEDU). Perché i diritti umani, se vengono considerati diritti soggettivi, ed unica forma di linguaggio, per funzionare nella pratica devono essere specificati. E ci si può appellare formalisticamente ora agli uni ora agli altri senza apparenti contraddizioni[21].

La riflessione biogiuridica prevalente, ad esempio, riconduce ogni questione relativa al tema della sterilità ad una prospettiva costituzionale di tutela della salute riproduttiva (art. 32 cost.), dando al contempo rilevanza giuridica all’autonomia soggettiva nella gestione della propria corporeità e sessualità. Autodeterminazione e riproduzione diventano le parole-chiave e il diritto viene piegato ad una tutela auto-referenziale dei diritti dell’individuo. Con il diritto alla salute riproduttiva si può garantire una tutela giuridica alla pretesa soddisfazione di ogni desiderio e il soggetto viene a rilevare nel diritto non per ciò che è, ma per ciò che vuole essere. Come già ebbe modo di esprimersi la Cassazione nel 1999, “[…] La salute non può più essere tipizzata e ricondotta a una serie univoca e astratta di qualità oggettive, ma si modella su scelte individuali, assolutamente personali e tendenzialmente insindacabili, che riflettono l’idea che il soggetto ha di sé”[22]. E poiché essere genitori può rientrare a pieno titolo nell’idea di salute e di benessere che ogni individuo ha di sé, diventare genitori diviene un diritto.

Quest’aspetto è particolarmente degno di nota in relazione al tema della fecondazione eterologa. Nella recente pronuncia della Corte Costituzionale del 22 maggio scorso, quest’ultima ha stabilito che impedire - ai sensi della legge 40/2004 - alle coppie sterili di ricorrere alla fecondazione eterologa non costituisce violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e rinvia la questione ai tribunali di legittimità che avevano investito la Suprema Corte del caso in esame. In proposito la Corte Costituzionale era stata invitata a pronunciarsi alla luce della sentenza della Corte europea del 3 novembre 2011 (caso S.H. et al. V. Austria n. 57813/00), in merito al giudizio instaurato nei confronti dell’Austria sempre a proposito del divieto di fecondazione eterologa previsto dalla normativa austriaca. Nella sentenza la Corte ribaltava il giudizio espresso dalla Camera semplice il 1 aprile 2011, affermando che il divieto non contrasta con gli artt. 8 (diritto alla vita privata e familiare) e 14 (principio di non discriminazione) della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti e delle Libertà fondamentali e ha ribadito la dottrina del “margine di apprezzamento” dei singoli Stati membri[23].

Tuttavia va rimarcato che nella prima sentenza della Camera del 2011, con la quale aveva inizialmente riconosciuto un diritto alla fecondazione eterologa, la Corte aveva ritenuto che il rischio di mercificazione dei gameti femminili fosse controllabile, che l’introduzione di parentele “atipiche” con la fecondazione eterologa non si sarebbe discostata da situazioni già previste con l’adozione, che si riteneva irragionevole e privo di obiettività l’interesse del figlio a conoscere le proprie origini biologiche (il donatore/la donatrice anonimi), così come irragionevole era da ritenersi il pericolo che la madre gestazionale rifiutasse il figlio affetto da malattie genetiche provenienti dalla madre genetica (come è invece accaduto di recente ad una coppia italiana recatasi all’estero per un’eterologa); motivazioni prive di argomentazioni solide che hanno tuttavia orientato i tre tribunali italiani (Firenze, Catania e Milano) che nei mesi successivi hanno portato il divieto italiano di fecondazione eterologa davanti alla Corte Costituzionale[24]. Rendendo manifesta quella forte influenza che una parte della cultura giuridica europea, marcatamente orientata al riconoscimento di un diritto al figlio come diritto umano fondamentale, sta esercitando sui nostri giuristi. In tal senso, la giurisprudenza normativa dei tribunali sta riscrivendo il nostro diritto, sta snaturando quei principi personalisti di cui è impregnato il nostro ordinamento. Sta privando il diritto di quella dimensione relazionale che è la ragione stessa del diritto. La tecnologia riproduttiva favorisce l’esasperazione dell’autonomia, trasformando l’altro in uno strumento per realizzare il proprio desiderio procreativo. E attivando l’intervento di diritti auto-referenziali[25].

 

6. In una prospettiva al femminile, viene da chiedersi se la maternità ridotta a mera funzione riproduttiva non sia stata fatta oggetto della grande congiura della tecnologia contro la natura e la donna: lungi dall’essere neutrale, la tecnologia, capace di dare alle donne il potere di essere madri in maniera così autoreferenziale, non le sta solo espropriando del vero controllo sulla riproduzione[26], ma sta togliendo loro il privilegio di vivere autenticamente la propria femminilità. Si pensi anche a quella tecnologia “di genere”[27] che è la diagnosi prenatale, capace di “medicalizzare” la gestazione fin dal concepimento, modificando radicalmente il rapporto della donna con la maternità, con il proprio corpo e con il figlio desiderato. Diffusasi ormai nel nome del diritto/dovere di mettere al mondo solo figli sani, essa riesce a far slittare nel tempo l’esperienza della gravidanza della donna, condizionandola all’esito e ai tempi della diagnosi, per verificare la salute del bambino e la bontà del suo venire al mondo. Barbara K. Rothman l’ha definita “the tentative pregnancy”[28], in cui le donne si costruiscono il vissuto di una gravidanza “incerta” e “condizionata”, anziché accettata e costruita nell’orizzonte di un amore genitoriale accogliente fin dal suo inizio[29]. Per queste sue finalità, la diagnosi prenatale – corollario della fecondazione assistita - rientra ormai a pieno titolo nella “medicina dei desideri”, offrendosi come strumento per programmare la nascita di figli solo sani e forti, sulla scia di un eugenismo tecnologico, privato ed “individuale”[30], del quale noi donne non siamo sempre consapevoli[31].

 

7. All’immagine tradizionale della donna che si fa grembo accogliente e generoso, si contrappone così nell’immaginario collettivo di oggi una donna che rivendica in maniera non sempre pacifica il principio di autodeterminazione, l’auto-gestione del proprio corpo nella decisione di diventare madre, e il diritto di gestire la vita prenatale. Nell’illusione che la tecnica sia sempre dalla sua parte. Torna alla mente l’immagine inquietante dell’Uroboros autogenerante: un serpente circolare, antico simbolo egiziano, che uccide se stesso, sposa se stesso, e feconda se stesso. E’ uomo e donna, genera e concepisce, divora e partorisce[32]. E’ l’immagine di una madre che cerca di essere volitiva, per la quale il figlio diviene radicalmente un atto di scelta, e anziché essere portatore del logos iscritto nell’atto d’amore dei suoi genitori, può essergli associato solo accidentalmente per motivazione, come frutto di un atto distinto della volizione[33].

Nell’epoca del fare i figli, ridurre simbolicamente la maternità ad una volontà generante, ad una funzione riproduttiva, o ad una funzione di cura facilmente sostituibile da figure surrogate ci priva della capacità di trovare quella “chiave dorata che una buona fata pose nella nostra culla” per sciogliere i nodi più complessi della nostra identità[34]. Ciascuno di noi proviene da una donna[35], ed è innegabile che l’esperienza del materno e di come questo vissuto prende forma nella donna è determinante per l’identità fisica e psichica del figlio che sarà. E il diritto questo lo sa. Così si spiega la prudenza dimostrata dalla Corte Europea nella decisione definitiva sul caso austriaco: facendo propria la posizione della Corte Costituzionale dell’Austria, essa ha ritenuto che “la PMA dovrebbe aver luogo in modo analogo alla procreazione naturale”, mantenendo salvo il principio basilare mater semper certa est, per evitare che due persone possano asserire di essere la madre biologica dello stesso bambino ed evitare controversie tra madre biologica e madre genetica. Così come ha affermato che “la Corte non può non tenere conto del fatto che la distinzione della maternità tra la madre genetica e quella “uterina” si differenzia in modo significativo dal rapporto genitore-figlio adottivo e aggiunge un nuovo aspetto alla questione”[36].

Anche se poi non si è spesa nel tentativo di spiegare che la ragione di questa differenza sta nel fatto che lo sdoppiamento della maternità o della paternità con la fecondazione eterologa inciderebbe radicalmente sul modello di società naturale-famiglia, quale ad esempio quello previsto dalla nostra Costituzione. Su questo aspetto il nostro ordinamento è puntuale e attento e non si presta ad interpretazioni arbitrarie. Una lesione alla naturale identità della famiglia potrebbe verificarsi solo nell'interesse dei figli, che sono titolari di diritti prevalenti rispetto all'interesse familiare. E' la soluzione dell'adozione, che si giustifica per lo stato di abbandono in cui si trovano i minori. Non si potrebbe invece ipotizzare che il Legislatore crei artificiosamente una situazione di disagio (sradicamento dei figli dalla paternità) strettamente funzionale alla soddisfazione di un bisogno - desiderio di maternità - che non assume nel nostro ordinamento costituzionale i caratteri del diritto soggettivo. In proposito, la Carta repubblicana, all’articolo 2, indica che lo svolgimento della personalità umana – e dunque anche il desiderio di maternità – non si attua individualisticamente alla stregua di soggetti avulsi dal contesto della vita di relazione, ma all’interno della formazione sociale, che, nel caso della maternità, è il proprio nucleo familiare. Un “diritto a procreare”, perciò, in nessun modo è configurabile nel nostro ordinamento.

 

8. Come liberare allora la maternità dalla perversa logica dei “diritti”? Forse, sottraendola alla dimensione della giustizia, di quella fredda giustizia formalista che oggi rende tutto possibile, che – come la spada di Salomone - non può avere preferenze né riguardo per nessuno, nemmeno per i più piccoli e gli indifesi, rinnegando quella sua stessa essenza di riconoscimento delle spettanze altrui che la costituisce come jus.  

La maternità non appartiene a questa logica, ma piuttosto alla logica della carità: “Fra la carità e la giustizia la differenza essenziale non dipende forse dalla preferenza che la carità ha per l’altro, mentre dal punto di vista della giustizia nessuna preferenza è più possibile?”[37]. La maternità è misericordia (nella lingua ebraica lo stesso termine - rahamin - indica la misericordia e il grembo materno), è ospitalità, è accoglienza[38]. Il luogo sicuro da cui si parte, la casa[39].

Come nei confronti della trascendenza l’essere umano può solo aprirsi - Dio non si merita e non si conquista, ma si accoglie – così il dono della maternità si riceve ed ogni io di potere si trasforma in un io ospitale, riesce a fare spazio all’altro, si autolimita e inizia a servire.

Con questa consapevolezza occorre oggi ripartire, è questa consapevolezza che ogni donna dovrebbe trasmettere come un segreto prezioso ad ogni figlia che mette al mondo.

“Concedi al tuo servo un cuore docile” chiede Salomone a Dio, affinché ogni donna si apra al mistero della maternità in tutte le sue espressioni – fisica, psichica e spirituale - sapendo che Dio protegge non dalla sofferenza, ma nella sofferenza, dischiudendo ogni volta nuovi orizzonti e significati. Solo in questa prospettiva noi donne potremo sottrarre il nostro desiderio di un figlio alla logica di un diritto arbitrario, arrogante, incerto, incapace oggi di suscitare quel “rispetto per il re perché vedevano che la sapienza di Dio era in lui per rendere giustizia” (1Re, 3, 28).

 

 

 

 

[1] Pardo Sáenz J.M., The unknown face of in vitro fertilization, in “Medicina e Morale”, 2012, 1, pp. 57-74.

[2] Sandel M.J. , Contro la perfezione. L'etica nell'età dell'ingegneria genetica, Milano,Vita & Pensiero, 2008.

[3] Spriggs M., Lesbian couple create a child who is deaf like them, in “J. Medical Ethics”, 2002, 28, p. 283.

[4] Levine A.D., Self-regulation, compensation and the ethical recruitment of oocyte donors, in “Hastings Center Report”, 2010, 40 (2), pp. 25-36.

[5] Serías la madre de tu hermana?, “El Mundo”, 20 gennaio 2011. Cfr. anche Javda V., Casey P., Readings J. et al., A longitudinal study of recipients’ views and experiences of intra-family egg donation, in “Human Reproduction”, 2011, 26, pp. 2777-2782.

[6] Esemplare, a questo proposito, è stata la sentenza del Tribunal de Grande Instance di Parigi che, nell’agosto 2004, ha riconosciuto la potestà genitoriale congiunta ad una coppia di lesbiche nei confronti delle tre figlie nate in seguito ad inseminazione eterologa da donatori anonimi. Tribunal de Grande Instance (TGI) de Paris, 2 juillet 2004.

[7]  Tallacchini M., La capacità procreativo/riproduttiva: atto “umano” o processo “corporeo”?, in F. D’Agostino (a cura di), La sterilizzazione come problema biogiuridico, Torino, Giappichelli, 2002, pp. 95-124.

[8] Si veda, sul punto, la sentenza della Cassazione civile, sez. V, 18 giugno 1987, con la quale la Corte ha ridotto la sterilizzazione a metodica contraccettiva, richiamandosi all’introduzione in Italia della legge n. 194 del 1978 sull’interruzione volontaria della gravidanza, che all’art. 22 ha abrogato l’intero titolo X del libro II del codice penale, comprensivo dell’art. 552 c.p. che puniva gli atti di procurata impotenza alla procreazione. Tale abrogazione deve pertanto intendersi come abolitio criminis della sterilizzazione volontaria, che pertanto è lecita e non sanzionabile, nonostante possa costituire, di fatto, una menomazione dell’integrità fisica del soggetto, in antitesi con l’art. 5 c.c. 

[9] Sull’impossibilità di fondare un diritto ad avere un figlio solo sano vi sono già state delle pronunce chiare di vario ordine e grado (così, il tribunale di Catania, 3.05.2004 e la Corte di Cassazione, n. 14488/2004).

[10] In tal senso, ragioni di ordine pubblico (secondo comma art. 8 CEDU) possono giustificare l’ingerenza legittima, necessaria e proporzionata da parte dello Stato con una legge che vieti metodiche come la diagnosi preimpiantatoria o la fecondazione eterologa.

[11] 1Re 3, 16-28. H. Gressman individua almeno una ventina di versioni del tema nella letteratura folcloristica universale (in Die älteste Geschichtsschreibung und Prophetie Israels, Göttingen, 1921).

[12] Lévinas E., Il tempo e l’altro, Genova, Il Melangolo, 1997 III ed., p. 45.

[13] Nel suo saggio sull’archetipo della Madre e il complesso materno, Jung osserva come esso possa generare un’ipertrofia del femminile, con un eccessivo rafforzamento dell’istinto materno fino a ridurre lo scopo della femminilità alla procreazione. Per questo tipo di donna “ […] l’uomo è palesemente un elemento accessorio, essenzialmente strumento di riproduzione, annoverabile agli oggetti ai quali deve accudire […]. La sua propria personalità è per lei un elemento di secondaria importanza […] in quanto vive negli altri e attraverso gli altri, in identificazione con loro. Questo tipo di donna prima fa i figli, poi ai figli si aggrappa, non avendo all’infuori di essi alcuna raison d’être. Come Demetra, strappa agli dèi diritto di possesso sulla propria creatura. L’Eros si sviluppa unicamente come dimensione materna; come dimensione personale resta invece inconscio. Un Eros inconscio si manifesta sempre come potenza: questa donna, infatti, malgrado tutta l’abnegazione di cui si dice capace, non è assolutamente in grado di compiere nessun sacrificio reale, ma impone il suo istinto materno con una volontà di potenza spesso sprezzante, che giunge fino all’annientamento della personalità sua e della vita stessa dei figli. Quanto più inconsapevole della sua personalità è una simile madre, tanto più grande e violenta è la sua inconscia volontà di potenza”. Cfr. C. G. Jung, Gli aspetti psicologici dell’archetipo della Madre (1938-1954), in Opere, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Torino, Bollati e Boringhieri, 2002, pp. 87-88. 

[14] Secondo alcuni studi risalenti agli anni Sessanta, già all’epoca del boom della contraccezione la fecondità si manifestava non tanto come una apertura positiva alla vita, ma come il risultato di una doppia negazione, cioè della rinuncia – prima negazione -  a fare tutto il necessario per non – seconda negazione – avere figli. Cfr. Bourdieu P., Darbel A., La fin d’un malthusianisme?, In Darras, Le partage des bénéfices, Paris, Minuit, 1966, pp. 135-155.

[15] Bauman Z., Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Bari, Laterza, 2006. In proposito, dello stesso autore, cfr. anche Vita liquida, Bari Laterza, 2010, pp. 112, ss.

[16] In particolare, in quel desiderio di sterilità che da oltre due secoli trova sostegno in un’ampia letteratura, sia specialistica, sia più divulgativa, di provenienza soprattutto americana, capace di mostrare il figlio come danno o come frutto di una errata scelta morale. Del 1832, per esempio, è un noto libro americano di Charles Knowlton, Fruits of philosophy: the private companion of young married people, by a physician, sulla doverosità morale dell’uso della contraccezione e sull’idea che i figli debbano essere non più una inevitabile conseguenza dell’unione coniugale, bensì una scelta. In anni recenti sta emergendo una pubblicistica orientata alla ricerca di ragioni valide per mettere i figli al mondo: cfr. Christine Overall, Why have children? The ethical debate, Cambridge, 2012, e David Benatar, Better never to have been: the harm of coming into exixtence, Oxford University Press, 2006, a favore di un utilitarismo della specie, secondo il quale non esistere è meglio di un’esistenza caratterizzata da una seppur minima quantità di sofferenza, come una puntura di spillo. Si veda anche Bryan Caplan, Selfish reasons to have more kids: why being a great parent is less work and more fun than you think, Basic books, 2011, per il quale fare figli è un problema morale. Anche un’ampia letteratura divulgativa al femminile si va orientando in tal senso: cfr., per tutti, S.J. Douglas, M. W. Michaels, The mommy myth, The Idealization of Motherhood and How It Has Undermined All Women, Simon and Schuster, 2004.

[17] Ravasi L., Terra fertile, terra desolata, in Lagorio S., Ravasi L., Vegetti Finzi S., Se noi siamo la terra, Identità femminile e negazione della maternità, Milano, Il Saggiatore, 1996, p. 87. Nonostante la problematicità del tema, nelle discipline umanistiche si coglie un diffuso abbandono della riflessione sulla maternità nei suoi profili simbolici e antropologici, sostituita dall’interesse scientifico per la capacità riproduttiva delle donne, ridotta a funzione biologica.

[18] Vegetti Finzi S., Il mito delle origini. Dalla Madre alle madri, un percorso di identità femminile, in Lagorio S., Ravasi L., Vegetti Finzi S., Se noi siamo la terra, cit., p. 38.

[19] Jung C.G., Gli aspetti psicologici dell’archetipo della Madre, in Opere, cit., p. 83.

[20] Savulescu J., Procreative Beneficence: Why We Should Select the Best Children, in “Bioethics”, October 2001, vol. 15, nn. 5-6, pp. 413-426; Beneficenza procreativa e disabilità: il dovere di avere il bambino con le migliori possibilità di vita, Bioetica, 2007, 15, 1, pp. 56-64. Si veda anche Mordacci, R., Loi M. (a cura di), Etica e genetica. Storia, concetti, pratiche, Mondadori, 2012.

[21] Sul punto, cfr. Boltanski L., La condizione fetale. Una sociologia della generazione e dell’aborto, Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 169, ss.

[22] Cass., 16.07.1999, n. 309.

[23] Per un commento si veda Casini M., La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: il divieto di eterologa non viola la Convenzione Europea sui diritti umani. Nota in margine alla sentenza della Grande Camera del 3 novembre 2011, in “Medicina e Morale”, 2012/1, pp. 13-29. Va rimarcato che la legge austriaca, a differenza di quella italiana, non vieta l’eterologa tout court, dal momento che ammette l’inseminazione eterologa con dono di sperma, escludendo la fecondazione in vitro eterologa maschile e la donazione di ovuli.

[24] Tribunale di Firenze, Ordinanza n. 19 del 1 settembre 2010 (in G.U., prima serie sp., 2.02.2011, 6, pp. 57-64); Tribunale di Catania, Ordinanza n. 34 del 21 ottobre 2010 (in G.U., prima serie sp., 2.03.2011, 10, pp. 61-71); Tribunale di Milano, Ordinanza n. 163 del 28 dicembre 2010.

[25] Cricenti G., Il sé e l’altro. Bioetica del diritto civile, Roma, Aracne, 2012; Violini L., I diritti fondamentali e il loro futuro: il banco di prova del biodiritto, in Andrea Pin (a cura di), I nuovi diritti dell’uomo. Le sfide della società plurale, Venezia, Marcianum Press, 2012, pp. 121-142.

[26] In una società inegualitaria, quale quella evidenziata da una certa letteratura femminista, la tecnologia è gestita dagli uomini e in quanto tale accresce il potere maschile sulla vita e sul corpo delle donne, privandole di ogni ruolo che vada al di là dell’essere mere macchine da riproduzione, asservite alla logica maschile del mercato della domanda e dell’offerta. Così, nella sua analisi, Carolyn Merchant, La morte della natura. Donne, ecologia e rivoluzione scientifica, tr.it., Milano, Garzanti, 1988. Nella direzione opposta si orienta la letteratura femminista radicale degli anni Settanta, con l’utopia della liberazione: a partire da S. de Beauvoir, che vedeva nella maternità un pesante fardello naturale da cui emanciparsi e poi con Shulamite Firestone (La dialettica dei sessi, Firenze, Guaraldi, 1971) per la quale la tecnologia riproduttiva viene ad assumere un potere liberante per le donne. La speranza è che la tecnologia riesca a modificare la natura, stabilendo un equilibrio artificiale, al posto di quello naturale ingiusto ed inegualitario tra uomo e donna.

[27] Lippman A., Prenatal genetic testing and geneticization: mother matters for all, in “Fetal Diagn. Ther.”, 1993, 8 (suppl.1), pp. 175-188.

[28] Katz Rothman B., The tentative pregnancy. Prenatal diagnosis and the future of motherhood, New York, Viking, 1986. Cfr. anche The tentative pregnancy: then and now, in “Fetal Diagn. Ther.”, 1993, 8 (suppl. 1), pp. 60-63.

[29] Cfr.<<>> Jochemsen H., Medical genetics: its presuppositions, possibilities and problems, in “Ethics & Medicine”, 8/2, 1992>>>, pp. 18-31.

[30]<<>> Gillon R., Eugenics, contraception, abortion and ethics, in “Journal of Medical Ethics”, 1998, 24, n. 4, pp. 219-220.

[31] Martin E., The women in the body. Medical metaphors of women’s bodies, Birth Open University Press, Milton Keynes, 1987>>>, pp. 55-67, nel quale l’autrice già allora introduceva la metafora della gravidanza come “produzione” di un figlio, soggetto a controlli di qualità.

[32] E. Neumann usa il riferimento all’Uroboros nell’indagare l’evoluzione della coscienza del bambino a partire dall’indifferenziazione iniziale con la madre, quello stadio della vita psichica in cui l’IO ancora embrionale giace sotto il dominio dell’Uroboros. Cfr. Neumann E., Storia delle origini della coscienza, Roma, Astrolabio Ubaldini, 1978, pp. 54-55.

[33] Crawford D., Natura e famiglia. Riflessioni legali e culturali, in L. Melina (a cura di), Il criterio della natura e il futuro della famiglia, Siena, Cantagalli, 2011, pp. 71-87.

[34] Jung C.G., Gli aspetti psicologici dell’archetipo della Madre, in Opere, cit., p. 92.

[35] Rich A., Nato di donna, trad. it., Milano, Garzanti, 1977.

[36] Il testo è rinvenibile in inglese in “Medicina e Morale”, 2011/6, pp. 1108-1138.

[37] “Il femminile - spiega Lévinas - ha come suo carisma quello di essere l’accoglienza ospitale per eccellenza”. Lévinas E., Il tempo e l’altro, cit., p.48.

[38] In Ronchi E., Le case di Maria. Polifonia dell’esistenza e degli affetti, Milano, Paoline, 2010, p. 53.

[39] Home is where we start from è anche il titolo poetico di una raccolta di versi di Eliot T.S., Quattro quartetti, Milano, Garzanti, 1976, p. 47 (trad. it. di F. Donini).