21 gennaio 2011 - il patto di famiglia
di Mauro Paladini
Professore associato di diritto privato presso l'Università di Brescia
Il patto di famiglia: ipotesi di obbligo a contrarre?
Sommario: 1. La qualifica di «contraenti» dei legittimari partecipanti al patto di famiglia - 2. La “doverosità” della partecipazione dei legittimari equivale a “incoercibilità” del loro consenso alla stipulazione del patto di famiglia? - 3. Le tesi dottrinali che affermano la nullità del patto di famiglia stipulato in assenza dei legittimari. - 4.
L’istituto del patto di famiglia, all’indomani della sua introduzione con Legge 14 febbraio 2006 n. 55, ha suscitato il vivo interesse degli studiosi, al punto da dar vita ad un’amplissima e approfondita letteratura, ma ha ricevuto, viceversa, applicazioni timide ed isolate nella prassi, ponendo repentinamente il problema della corrispondenza delle nuove norme rispetto ai dichiarati obiettivi legislativi di apprestamento di uno strumento idoneo a facilitare la circolazione intergenerazionale della ricchezza senza le limitazioni costituite dai principi tradizionali in materia di successioni.
E’ nota, invero, la ratio del patto di famiglia, che è quella di consentire il trasferimento intuitu personae - dall’imprenditore ad uno o più discendenti - della titolarità e della gestione dell’impresa, sottraendo l’atto di alienazione al rischio dell’azione di riduzione, che i legittimari potrebbero altrimenti esperire, in seguito alla morte del disponente, avverso il trasferimento dell’azienda compiuto mediante donazione o con altro atto avente causa di liberalità.
Il legislatore, tuttavia, ha confezionato un insieme di norme di assai difficile lettura, sul quale sono davvero pochi gli aspetti che possono considerarsi pacifici o, quanto meno, largamente condivisi.
E’ dubbia, in primo luogo, la natura giuridica del patto di famiglia: se esso costituisca un negozio mortis causa, un atto di liberalità, un contratto a favore di terzi, un negozio divisorio o altro. Dalla qualificazione discendono, peraltro, conseguenze applicativa di particolare incidenza: basti pensare alla possibilità di revocazione per ingratitudine o sopravvenienza di figli qualora si opti per la qualificazione in senso di liberalità
Deve escludersi, in primo luogo, che il patto di famiglia possa essere considerato un negozio i cui effetti possano prodursi soltanto dopo morte del disponente. Oltre al dato letterale (che fa riferimento al “trasferimento” dell’azienda), occorre sottolineare che l’esonero da collazione non avrebbe alcun significato se riferito a un atto destinato ad acquisire effetti soltanto con la morte del disponente[1].
Parimenti, deve essere disattesa la tesi del contratto a favore di terzi – là dove i “terzi” sarebbero i legittimari non assegnatari, ma aventi diritto alla liquidazione di quanto spetterebbe loro a titolo di legittima – posto che costoro non sono destinatari di soli effetti favorevoli, come è dimostrato dal fatto che, aderendo al patto di famiglia, essi rinunciano a far valere le loro ragioni di legittimari sull’azienda o sulle partecipazioni societarie[2].
Non pienamente convincente appare, altresì, la tesi della divisione, poiché il disponente non attribuisce ai legittimari l’intero suo patrimonio, ma trasferisce il solo bene dell’azienda ai discentendi. La divisione presuppone un complessivo compendio di beni, rispetto al quale si formino delle porzioni equivalenti tra gli aventi diritto. Nel caso del patto di famiglia,
- l’attribuzione concerne soltanto l’azienda
- il conguaglio in favore degli altri legittimari è dovuto, di regola, dall’assegnatario;
- infine, occorre considerare che, mentre il conguaglio dovuto ai “partecipanti non assegnatari” comprende “la somma corrispondente al valore della quota di legittima”, non è affatto previsto che l’azienda assegnata, detratte le somme dovute ai non assegnatari, debba presentare una valore differenziale corrispondente alla quota di legittima, potendo comprende invece anche il valore della figurativa porzione di “disponibile” ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore.
Per comprendere la ratio del patto di famiglia, peraltro, è forse sufficiente indagare il movente soggettivo del disponente, secondo la rappresentazione e l’intenzione del legislatore: esso consiste nel proposito dell’imprenditore di trasferire l’azienda ad uno (o più) dei discendenti, senza il rischio di successive pretese successorie da parte degli altri legittimari. E’ evidente, quindi, che si tratti di un intento del tutto identico a quello della donazione e che lo scopo della legge sia proprio quello di configurare una “figura speciale” di donazione, immune da ogni successiva pretesa di carattere successorio.
Che il patto di famiglia costituisca un negozio “anticipatorio” della futura successione è dimostrato altresì della preoccupazione del legislatore di tracciare una netta linea di confine rispetto ai patti successori, del quale rappresentare parimenti una ipotesi speciale.
In primo luogo, nel patto di famiglia vi è un accordo “dispositivo” rispetto alla successione dell’imprenditore, poiché l’assegnatario versa agli altri legittimari una somma corrispondente al valore della legittima a fronte della rinuncia di questi ultimi a far valere le loro pretese sul bene oggetto del trasferimento. Nel caso in cui, invece, i legittimari non assegnatari rinuncino alla liquidazione, il patto si configura alla stregua di patto successorio rinunciativo[3].
La qualificazione del patto di famiglia come negozio con causa di liberalità pone, quindi, la questione di quali norme sulla donazione possano essere eventualmente applicabili nonostante il mancato richiamo del legislatore.
Ferma l’espressa inapplicabilità degli istituti della collazione e della riduzione, possono risultare applicabili le norme sulla revocazione per ingratitudine (art. 801 c.c.), sulla nullità per motivo illecito determinante (art. 788 c.c.), per annullabilità errore sul motivo (art. 787 c.c.), sui limiti alla responsabilità per inadempimento o ritardo (art. 789 c.c.) e alla garanzia per evizione (art. 797 c.c.) o per vizi della cosa (art. 798 c.c.).
Uno dei fondamentali problemi interpretativi, da cui dipendono la diffusione e il successo del nuovo istituto, consiste nello stabilire se il patto di famiglia richieda, a pena di nullità, la partecipazione necessaria dei legittimari non assegnatari, oppure se il trasferimento dell’azienda possa attuarsi anche in assenza dell’adesione dei legittimari.
Il dato normativo è connotato da grave ambiguità.
L’art. 768 quater c.c. stabilisce che «al contratto devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore».
Da un lato, quindi, la forma verbale adoperata dal legislatore («devono») parrebbe non lasciare adito a dubbi in ordine alla “necessità” della partecipazione dei legittimari;
dall’altro, però, non è chiaro se la “partecipazione” dei legittimari corrisponda alla manifestazione di un loro consenso negoziale, incoercibile e non surrogabile nell’ambito di un contratto plurilaterale senza comunione di scopo, oppure se la partecipazione stessa consista in una “presa d’atto” finalizzata alla mera opponibilità del patto verso i legittimari.
Con riguardo a tale ultimo aspetto, la complessiva analisi del dato normativo consente di pervenire a una soluzione sufficientemente rassicurante in ordine alla volontà del legislatore di attribuire alla “partecipazione” dei legittimari l’effettivo significato di manifestazione di una volontà contrattuale e, dunque, di considerare i legittimari quali “contraenti” alla stessa stregua dell’imprenditore disponente e del discendente assegnatario.
Depongono in tal senso i seguenti dati letterali e sistematici.
A) In primo luogo, l’art. 768 quater, comma 3, c.c., attribuisce agli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie l’obbligo di liquidare «gli altri partecipanti al contratto», così rivelando l’equiparazione concettuale, operata dal legislatore, tra le definizioni di “contraenti” e di “partecipanti”; in altri termini, posto che è fuor di dubbio che l’assegnatario sia un contraente, allorché l’art. 768 quater c.c. menziona i legittimari come «altri partecipanti», risulta evidente che il legislatore ha inteso la categoria dei “partecipanti” come genus rispetto alle specifiche nozioni di “disponente”, “assegnatari” e “legittimari”.
B) A sua volta, l’art. 768 quater, comma 4, c.c. usa la formula «partecipanti non assegnatari dell’azienda», che a contrario rivela come il legislatore dia per scontato che l’assegnatario sia parimenti un “partecipante” e che, pertanto, la qualifica di “partecipante” non intende negare al legittimario la sua qualità di “contraente”.
C) Lo stesso art. 768 quater, comma 4, c.c., afferma, nella seconda parte, che «l’assegnazione [agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda] può essere disposta con successivo contratto …», con un’espressione che, ancora una volta, induce a ritenere univocamente che i legittimari - id est i partecipanti non assegnatari dell’azienda - siano considerati dal legislatore alla stregua di contraenti del patto di famiglia.
D) L’ultimo comma dell’art. 768 quater c.c., infine, recita che «quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione»: tanto la lettera della norma, coordinata con quella dei precedenti commi, quanto la ratio complessiva della disciplina, intesa a stabilizzare gli effetti delle rispettive assegnazioni pur in seguito alla morte del disponente, consentono, pertanto, di ritenere che il «quanto ricevuto dai contraenti» si riferisca al contenuto delle assegnazioni operate sia in favore dell’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni societarie sia a vantaggio dei legittimari, ai quali deve riconoscersi, quindi, con certezza, la qualità di “contraenti” del patto di famiglia.
2. La “doverosità” della partecipazione dei legittimari equivale a “incoercibilità” del loro consenso alla stipulazione del patto di famiglia?
Se i legittimari - per le ragioni illustrate - devono considerarsi contraenti a pieno titolo del patto di famiglia, occorre chiedersi perché la loro partecipazione non sia stata inserita nella definizione della figura contrattuale, nella quale il riferimento esclusivo è compiuto all’accordo con cui «l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti» (art. 768 bis c.c.).
Non si tratta di un mero rilievo stilistico o dell’ennesima dispregiativa critica nei confronti di una tecnica legislativa a dir poco non impeccabile, bensì di una considerazione che intende porre in evidenza come il legislatore abbia inteso sottolineare che, a fronte della libera iniziativa dell’imprenditore e del discendente, e della loro decisione di addivenire alla conclusione del patto, la partecipazione dei legittimari, pur avendo natura negoziale, è connotata da un diverso profilo di “doverosità”, che pone all’interprete il quesito relativo alla coercibilità giuridica della partecipazione stessa.
Non appare condivisibile, pertanto, la tesi che esclude tale doverosità, traendo argomento dall’art. 768 sexies c.p., secondo il quale «all’apertura della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’art. 768 quater, aumentata degli interessi legali». Da tale norma - la cui rubrica recita «rapporti con i terzi» - si dovrebbe evincere che, per i legittimari non aderenti per qualunque ragione al patto di famiglia, quest’ultimo risulterebbe res inter alios acta.
Non v’è dubbio che il coordinamento tra l’art. 768 quater, comma 1, c.c. e l’art. 768 sexies c.c. rappresenti il nodo più intricato della disciplina legislativa, posto che all’espressa “doverosità” della partecipazione, sancita dalla prima delle due norme, segue la regolamentazione degli effetti di quella “mancata partecipazione”, che l’interprete sarebbe indotto prima facie a non ritenere neppure configurabile.
L’ambiguità del dato normativo ha reso inevitabile che la dottrina si dividesse e proponesse soluzioni nettamente incompatibili l’una con l’altra.
Secondo un orientamento, la lettera dell’art. 768 quater, comma 1, non lascia spazio ad alcun dubbio ermeneutico e «la categorica locuzione “devono partecipare al contratto” fa apparire la norma in questione come dotata del carattere dell’imperatività e, quindi, come tale inderogabile dalle parti»[4]. La necessità della partecipazione dei legittimari implica - secondo questa tesi - che il patto di famiglia c.d. “complesso” (quello che richieda, in virtù della loro esistenza, la partecipazione dei legittimari) debba considerarsi un contratto essenzialmente plurilaterale
Ma pur affermata la “necessità” della partecipazione dei legittimari, si pone il problema se tale partecipazione sia equiparabile sotto tutti i profili a quella del disponente e del discendente, e se il rifiuto di partecipazione precluda in ogni caso la stipulazione del patto di famiglia.
Se la conclusione dovesse essere quest’ultima, risulterebbero frustrate, invero, le finalità della legge, consistenti nel consentire il trasferimento dell’azienda a vantaggio del discendente (o dei discendenti) che, a differenza o in misura maggiore rispetto ai legittimari, abbia dimostrato sensibilità e abilità imprenditoriale e che, per tale ragione, possa essere beneficiato dall’ascendente con un atto che assicuri - almeno negli auspici di chi lo compie - la continuità dell’impresa e la prosecuzione di un progetto economico nel quale il disponente ha investito, spesso per gran parte della sua vita, denari, tempo e sacrifici.
V'è, al contrario, chi addirittura reputa che essenziale sia semplicemente l'invito a prendere parte al patto [5].
Orbene, ritenere che il “dovere di partecipazione” dei legittimari equivalga al loro “diritto di non accettare la stipulazione del patto” e, dunque, di impedire il passaggio generazionale virtuoso, significa svuotare di ogni effettività il nuovo istituto e relegarlo a situazioni, forse addirittura eccezionali, di assoluta concordia e unità di intenti all’interno della compagine familiare.
Per procedere alla stipulazione del patto di famiglia occorrerebbe, infatti, che i legittimari concordino:
- sull’opportunità del trasferimento dell’azienda (o delle partecipazioni societarie) ante mortem da parte dell’imprenditore;
- sulla designazione del discendente come beneficiario del trasferimento e, dunque, implicitamente, sulla scelta personale compiuta dal familiare-imprenditore in modo necessariamente preferenziale e discriminatorio rispetto ad altre individualità o ad analoghe ambizioni;
- sulla determinazione del valore dell’azienda (o delle partecipazioni) e, conseguentemente, sulla quantificazione della somma dovuta per la liquidazione delle proprie quote di legittimari;
- sull’eventuale liquidazione in natura delle quote stesse, nei confronti di tutti o di alcuni soltanto dei beneficiari;
- sull’eventuale liquidazione mediante successivo contratto collegato, secondo le modalità previste dall’art. 768 quater, comma 3, c.c.
La possibilità che tutte le parti interessate esprimano univoco consenso sugli aspetti sopra elencati, specie in presenza di compendi patrimoniali di una certa entità, è purtroppo assai remota, come è noto a tutti coloro che abbiano pratica di vicende successorie e divisorie.
Né può verosimilmente ritenersi che la sola presenza in vita, ad esempio, dell’anziano imprenditore - magari capostipite di una folta discendenza cresciuta e formatasi sulle ricchezze derivate dal suo fortunato e produttivo impegno imprenditoriale - possa rappresentare una sufficiente garanzia di pax familiaris e un efficace filtro preventivo di quei conflitti, che sovente deflagrano in seguito all’apertura della successione ereditaria, sia essa testamentaria o legittima.
In definitiva, la “necessità” della partecipazione dei legittimari al patto di famiglia, ove interpretata come incoercibilità del consenso dei legittimari rispetto all’accordo traslativo tra disponente e assegnatario dell’azienda (o delle partecipazioni), rischia di divenire un ostacolo insormontabile alla concreta diffusione dell’istituto e al conseguimento dei quegli obiettivi socio-economici, che il legislatore ha inteso perseguire.
Per queste ragioni, appare preferibile ritenere che a carico dei legittimari non assegnatari la legge imponga un “obbligo a contrarre”, il cui inadempimento espone alle conseguenze ordinariamente connesse dall’ordinamento nelle ipotesi in cui un soggetto sia tenuto, per legge o per contratto, ad esprimere il consenso negoziale a determinate e prestabilite condizioni.
La principale conseguenza consiste nel diritto di ottenere dal giudice una sentenza “che produce gli effetti del contratto non concluso” (art. 2932 c.c.). Per “costringere”, quindi, i legittimari non assegnatari ad accettare la liquidazione della loro quota di legittima conseguente al patto di famiglia, si potrebbe pervenire, anzitutto, alla stipulazione di un accordo tra imprenditore e assegnatario, nel quale, determinato l’importo delle somme spettanti ai legittimari, l’assegnatario si obblighi al pagamento delle stesse a fronte dell’adesione dei legittimari al patto.
A questo punto, l’assegnatario potrà proporre azione giudiziaria per ottenere dal giudice una sentenza di esecuzione in forma specifica “costitutiva” dell’adesione dei legittimari, previo pagamento della somma corrispondente al valore della loro quota di legittima (ritenendo applicabile l’art. 2932 cpv c.c., che prevede la previa esecuzione o offerta della controprestazione esigibile).
I problemi che pone una simile ricostruzione sono i seguenti:
- è ammissibile un contratto preliminare di patto di famiglia?
- in quale momento si verifica l’effetto traslativo della proprietà dell’azienda o delle partecipazioni?
Poiché il patto di famiglia ha natura di liberalità, dovrebbe ritenersi nullo un accordo con cui il disponente si obblighi al trasferimento dell’azienda. Ma non v’è ragione per non consentire il trasferimento immediato della proprietà dell’azienda in favore dell’assegnatario, perché l’obbligo di adesione dei legittimari può avere esecuzione anche successivamente all’accordo tra disponente e legittimario, come è dimostrato dalla stessa norma dell’art. 768 quater, comma 3, c.c., da cui si evince che la liquidazione (al pari dell’attribuzione di beni in natura) può essere effettuata “anche con successivo contratto che sia dichiarato espressamente collegato al primo”.
Il patto tra disponente e assegnatario ha, quindi, efficacia immediata e, al solo fine di precludere agli altri legittimari la facoltà di opporsi alla donazione (finché in vita il disponente) o di agire in riduzione (dopo la morte), l’assegnatario avrà l’onere di agire avanti al giudice, ai sensi dell’art. 2932 c.c., per ottenere una sentenza che tenga luogo dell’adesione dei legittimari e del riconoscimento della congruità della somma dovuta dall’asssegnatario.
Una simile interpretazione non può che indurre a ritenere che “il coniuge e i legittimari che non abbiano partecipato al contratto” siano non soltanto coloro che “non potevano partecipare” per non esistenti in tale loro veste giuridica al momento della stipulazione, ma anche coloro che non abbiano espresso il loro consenso al patto di famiglia e la cui adesione non sia stata ottenuta coattivamente mediante sentenza del giudice.
Tra le due categorie sussiste, però, una fondamentale differenza.
I legittimari sopravvenuti non potevano esprimere la loro adesione; pertanto, la legge consente loro soltanto di pretendere la somma corrispondente al valore della quota di legittima al momento del trasferimento dell’azienda.
I legittimari che hanno rifiutato l’adesione al patto, qualora non abbiano subito l’azione giudiziaria finalizzata al riconoscimento del loro obbligo di adesione e di accettazione della liquidazione, dovranno ritenersi liberi di agire con l’azione di riduzione, perché il patto di famiglia senza adesione dei legittimari esistenti non differisce in niente da una comune donazione compiuta dall’imprenditore.
In ogni caso, la conclusione che è consentito di accogliere è certamente nel senso che il patti di famiglia, stipulato senza la partecipazione dei legittimari diversi dall’assegnatario è pienamente valida ed efficace.
Del resto, in mancanza di un’espressa sanzione di nullità, che pure il legislatore si è preoccupato di prevedere con riferimento alla forma del patto, non si vede quali principi di ordine generale un tale patto possa violare al punto da indurre all’affermazione della nullità virtuale ex art. 1418 c.c.
Altro problema è quello di determinare come possa avvenire una liquidazione della quota di legittima.
Occorre distinguere due momenti: quello della stipulazione del patto di famiglia e quello dell’apertura della successione.
Al momento della stipulazione del patto, occorre avere riguardo non all’intero patrimonio del disponente, ma al valore della sola azienda (o delle partecipazioni societarie). La determinazione dell’importo delle quote di legittima deve essere compiuto, pertanto, come se il patrimonio del disponente sia costituito esclusivamente dall’azienda e nient’altro. Ciò per la natura “eccezionale” del patto di famiglia e perché, se si avesse riguardo all’intero patrimonio dell’imprenditore, si realizzerebbe una successione anticipata anche rispetto ai restanti cespiti, in aperto contrasto col divieto di patti successori e con la natura inderogabile delle norme in materia di successione.
Nella determinazione delle quote di legittima non si può prescindere dalla quota di disponibile. Supponendo, ad esempio, che l’azienda valga 100 e che l’imprenditore, coniugato, voglia trasferirla ad uno solo dei cinque figli, l’assegnatario dovrà corrispondere: 25 al coniuge (1/4) e 10 a ciascuno dei quattro fratelli. In definitiva, egli tratterrà un valore corrispondente a 35 (pari a 10 di legittima + 25 di disponibile). Nulla esclude, peraltro, che il disponente e l’assegnatario pattuiscano il versamento della disponibile in favore del disponente, senza che ciò infici minimamente la natura liberale dell’atto in relazione al trasferimento dell’azienda.
Al momento dell’apertura della successione, occorrerà parimenti avere riguardo al valore dell’azienda al momento della stipulazione e, nel caso di legittimari sopravvenuti, rideterminare il valore e la ripartizione delle quote di legittima. Nell’esempio precedente, supponendo la sopravvenienza di altri 5 figli, risulta che la quota spettante a ciascun figlio non assegnatario non sarà più di 10, bensì di 5, con la conseguenza che i figli sopravvenuti potranno pretendere dagli altri 5 il riconoscimento della solo quota e il relativo obbligo graverà sia in capo all’assegnatario sia sui beneficiari non assegnatari, come è reso palese dalla lettera dell’art. 768 sexies che, non a caso, si riferisce genericamente ai “beneficiari”.
Il problema è quello delle conseguenze nell’ipotesi di nuovo coniuge o di sopravvenuta mancanza del coniuge per premorienza.
Il coniuge sopravvenuto, poiché non rivestiva la qualifica di legittimazione al momento di stipulazione del patto di famiglia, non potrà avanzare alcuna pretesa, perché è la qualità di “legittimario” al momento del patto che giustifica, ad esempio, il diritto a percepire gli interessi legali. Se il coniuge è divenuto tale per un matrimonio successivo al patto di famiglia, non avrebbe alcuna giustificazione il riconoscimento degli interessi legali dalla data del patto e ciò implica che, in realtà, il solo coniuge che ha diritto al riconoscimento della quota è quello che, pur essendo tale, non abbia partecipato (spontaneamente o coattivamente) alla stipulazione del patto.
Impugnazione dei legittimari che non hanno partecipato al contratto
Il mancato soddisfacimento dei diritti dei legittimari sopravvenuti determina l'insorgenza, ai sensi dell'ultimo comma della norma in esame, della possibilità di contestare il patto di famiglia: "l'inosservanza delle disposizioni di cui al primo comma costituisce motivo di impugnazione ai sensi dell'art. 768 quinquies cod.civ.". Il riferimento alla disposizione da ultimo citata qualifica l'alterazione patologica in chiave di annullabilità, contrassegnata peraltro dalla singolare brevità del termine prescrizionale di un solo anno per proporre la relativa domanda. La cosa assolutamente singolare consiste nel fatto di aver collegato ad una condotta inadempiente dei beneficiari del patto (i quali per l'appunto non provvedessero a rivalere i legittimari sopravvenuti) l'incongruente conseguenza dell'invalidità e non quella, appropriata, della risolubilità, tipicamente prevista dall'ordinamento per sanzionare le anomalie funzionali del sinallagma contrattuale.
Non si può al riguardo non essere d'accordo con chi ha definito il disposto come giuridicamente mostruoso [6].
L’annullabilità del patto
L’art. 768-quinquies c.c. prevede la possibilità di impugnare il contratto per vizi del consenso ai sensi degli artt. 1427 ss. c.c. Anche questa disposizione può qualificarsi senz’altro come superflua. Superflua non è invece la riduzione del termine d’impugnativa, portato da cinque ad un anno.
A differenza di quanto disposto dalla formulazione della norma in esame nel disegno di legge C/3870-A, della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, secondo cui l’azione si sarebbe dovuta prescrivere «nel termine di un anno dalla conoscenza del vizio», l’art. cit. non fissa il dies a quo per il computo del termine annuale. Nonostante ciò, appare ragionevole presumere che il termine di riferimento sia pur sempre quello stabilito dall’art. 1442 cpv. c.c., che fissa la decorrenza dal giorno in cui è cessata la violenza o è stato scoperto l’errore o il dolo, tenuto conto del fatto che la norma novellamente introdotta rinvia agli artt. 1427 «e seguenti» e dunque, tra le norme «seguenti» ben può rientrare l’art. 1442 c.c. [7][270].
Il vero dubbio è invece quello di comprendere se l’espresso richiamo alla sola disciplina dei vizi del consenso induca ad escludere altre possibili forme d’impugnativa, sulla base dell’applicazione dei principi generali in tema di contratto.
Per questa strada si è posto chi esclude, ad esempio, l’applicabilità degli artt. 1425 e 1426 c.c., giustificando tale scelta in considerazione della forma imposta al patto: l’atto pubblico dovrebbe, invero, essere sufficiente a scongiurare il pericolo che, al momento della stipulazione del patto di famiglia, una delle parti versi in stato di incapacità, ovvero sussistano raggiri usati dal minore [8][271].
Ma appare sin troppo facile replicare che, allora, non si riuscirebbe a comprendere perché mai siffatte disposizioni trovano pacifica applicazione in relazione ad ogni altro contratto stipulato per atto pubblico. Ed è del resto ormai chiaro che neppure l’eventuale autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria – qui non richiesta per il patto, a meno che, ovviamente, a stipularlo non siano chiamati incapaci o semi-incapaci [9][272] – vale a «proteggere» un negozio da eventuali impugnative in base alle disposizioni che prevedono ipotesi di nullità, annullabilità o rescindibilità [10][273].
Altre ipotesi di invalidità del patto di famiglia
Assai più problematico è l'apprezzamento della sussistenza di più gravi forme di invalidità che sfocino nella nullità del patto.
1) Talune operazioni potrebbero rivelarsi critiche alla stregua di una valutazione condotta sotto il profilo della frode alla legge (art. 1344 cod.civ.).
Che cosa dire, ad esempio, del caso di Tizio che, titolare di numerosi beni immobili e padre di tre figli crei ad arte tre società, successivamente trasferendone le quote nell'ambito di uno o più patti di famiglia a ciascuno dei propri discendenti, così da provvedere a disciplinare pattiziamente (con l'intervento in chiave rinunziativa della coniuge nonché madre degli attributari) la propria successione?
L'eventualità è già stata vagliata, sia pure non sotto lo specifico profilo qui in considerazione, da chi ha osservato come si pongano cospicui dubbi sulla utilizzabilità dell'istituto nell'ipotesi di azionariato di semplice investimento [11].
2) Si pensi poi, e sempre a titolo d’esempio, al trasferimento di beni non rientranti nel disposto dell’art. 768-bis c.c., posto che l’estensione dei principi sul patto di famiglia a beni diversi dall’azienda (o da un ramo di essa) o dalle partecipazioni societarie presupporrebbe un’estensione analogica della disposizione vietata dal carattere eccezionale della stessa.
Conversione della nullità
Non sembra azzardato ipotizzare che, in caso di nullità del patto, si possano verificare ipotesi di conversione negoziale. Così, ad esempio, il trasferimento nullo, perché avente ad oggetto beni diversi dall’azienda o dalle partecipazioni societarie, potrà produrre gli effetti di una donazione, sempre che di tale contratto siano stati rispettati i requisiti formali (ecco una ragione di più perché il patto sia stipulato alla presenza di testimoni, anche se tale presenza, come si è detto, non appare stricto iure necessaria), qualora, come richiesto dall’art. 1424 c.c., «avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità».
La conclusione di cui sopra non può ritenersi in contrasto con la negazione della tesi che ravvisa nel patto di famiglia una donazione. Invero, ferma restando la finalità liberale dell’attribuzione dal disponente ai destinatari dell’azienda o delle quote societarie, tale finalità si presenta nel patto appaiata alla liquidazione in denaro o in natura in favore degli altri legittimari, o alla rinunzia da parte di costoro: liquidazione che risponde, come si è detto, a finalità solutorie del «prezzo» per la rinunzia ai diritti che a costoro spetterebbero in quanto legittimari.
Ma le due prestazioni (quella cioè effettuata dal disponente e quelle compiute dai destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie), pur se elementi essenziali del patto, non sono poste tra di loro in corrispondenza biunivoca, con la conseguenza che sembrano poter vivere vite autonome. Così, mentre la prima attribuzione potrà essere fatta salva grazie alla conversione del patto, alle condizioni precisate, in una donazione, più problematico sembra il salvataggio delle attribuzioni in favore degli altri legittimari, essendo assai difficile immaginare l’esistenza di un «contratto diverso» che produca gli effetti descritti dall’art. 768-quater, cpv., c.c. (e che sfugga al divieto dei patti successori).
Per le ragioni sopra illustrate dovrà poi anche ammettersi una convalida, alle condizioni richieste dall’art. 1444 c.c., di eventuali patti di famiglia annullabili [12][274].
Nullità per difetto di forma
Il patto di famiglia deve essere stipulato, a pena di nullità, per atto pubblico. L'art. 768 ter cod.civ. impone dunque un ben preciso formalismo ad substantiam che invero, lungi dal dirimere tutti i dubbi, pone un interrogativo cospicuo. Poiché infatti la negoziazione in parola non può non possedere natura liberale, ci si può legittimamente domandare se, al di là del silenzio sul punto serbato dal legislatore, sia indispensabile la presenza dei testimoni. Prima facie una risposta negativa parrebbe scaturire dal modo di disporre dell'articolo qui in esame, che menziona soltanto la necessità della forma dell'atto pubblico. Tuttavia è da rimarcare come non si diano liberalità dirette non presidiate dalla indispensabile presenza dei testi[13]. Ciò è imposto dall'art. 48 l.n. che viene ad integrare il disposto dell'art. 782 cod.civ., significativamente muto sul punto. In altri termini non si può desumere dal semplice difetto di riferimento ai testimoni la non indispensabilità dell'assistenza dei medesimi, come tale imposta dalla legge notarile in relazione alla diretta natura liberale dell'attribuzione insita nel patto di famiglia [14].
L'art. 12, comma 1, lett. c) della legge 28 novembre 2005, n. 246, ha sostituito l'art. 48 della legge notarile 18 febbraio 1913, n. 89, con il seguente:”Oltre che in altri casi previsti per legge è necessaria la presenza di due testimoni per gli atti di donazione, per le convenzioni matrimoniali e le loro modificazioni e per le dichiarazioni di scelta del regime di separazione dei beni nonché qualora anche una sola delle parti non sappia o non possa leggere e scrivere ovvero una parte o il notaio ne richieda la presenza. Il notaio deve fare espressa menzione della presenza dei testimoni in principio dell'atto.”
Ovviamente, nulla poteva prevedere per una norma ed un tipo contrattuale non ancora venuti ad esistenza, ma se il patto di famiglia non è una convenzione coniugale, in quanto il coniuge vi partecipa per la sua qualità di legittimario e non per lo status di coniuge, è un atto di liberalità, ancorché non donativo. Ritengo, pertanto, che la presenza dei testimoni sia opportuna, perché pur trattandosi, per espressa denominazione legislativa, di un contratto, il patto di famiglia è pur sempre un actus familiae e proprio quella sua collocazione dopo l'art.768 c.c., per attuare inter vivos il trasferimento di quelle che sarebbero le quote ereditarie dell'azienda o della governance, rende imprescindibile che la massima garanzia della forma solenne sia rafforzata anche dai testi.
Non minori difficoltà pone l’eventuale contratto collegato successivamente stipulato ai sensi del IV comma dell'art. 768 quater cod.civ. Qui si aggiunge al problema già enunziato anche quello proprio della forma del negozio susseguente, in quanto avvinto al primo dal collegamento negoziale. Si comunicheranno al secondo i requisiti formali del primo?
Il mutuo dissenso
Ai sensi dell’art. 768-septies c.c. «Il contratto può essere sciolto o modificato dalle medesime persone che hanno concluso il patto di famiglia nei modi seguenti:
1) mediante diverso contratto, con le medesime caratteristiche e i medesimi presupposti di cui al presente capo;
2) mediante recesso, se espressamente previsto nel contratto stesso e, necessariamente, attraverso dichiarazione agli altri contraenti certificata da un notaio».
La disposizione è stata ritenuta in gran parte (se si prescinde, cioè, dalle raccomandazioni in tema di forma) superflua, atteso che, avuto riguardo alla natura pacificamente contrattuale del patto di famiglia, risulta più che evidente che un contratto possa essere sciolto per mutuo dissenso o modificato da tutti i suoi contraenti (cfr. art. 1372 c.c.) e che, in base all’art. 1373 c.c. i contraenti originari possano attribuire ad uno o a più di essi il diritto potestativo di recedere.
Iniziando dall’art. 768-septies n. 1 c.c., si è rilevato [15][265] che la norma sembra confermare la teoria, sostenuta in dottrina [16][266], in base alla quale il mutuo dissenso è attuabile anche quando ha per oggetto lo scioglimento di un contratto i cui effetti si sono interamente prodotti. In definitiva, col mutuo dissenso del patto di famiglia, l’azienda o le partecipazioni sociali trasferite ritornano nel patrimonio del disponente, ripristinando la situazione precedente.
Il mutuo dissenso dovrà essere concluso da tutti coloro che hanno preso parte al patto di famiglia e, di conseguenza, anche i non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni sociali saranno tenuti a restituire quanto ricevuto a titolo di liquidazione [17][267].
Il recesso
Per quanto attiene, poi, al recesso, si è affermato che la facoltà concessa dall’art. 768-septies, n. 2, c.c., sarebbe difficilmente attuabile. Ciò in quanto tale previsione legislativa si scontra con il disposto dell’art. 1373 c.c., che, in tema di recesso unilaterale, riconosce la facoltà di recedere solo finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione. Al di fuori di tale ipotesi, il recesso può essere esercitato nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, facendo salve tuttavia le prestazioni già eseguite [18][268].
Ora, non vi è dubbio che nel caso del patto di famiglia, avuto riguardo all’effetto reale tipicamente dallo stesso prodotto, il contratto viene ad «avere esecuzione» fin dal momento della sua stipula. Ciò non toglie però che il Legislatore abbia qui chiaramente inteso far salva la possibilità per i contraenti di prevedere siffatta facoltà.
Sarà opportuno ribadire peraltro che, anche in assenza della disposizione in commento, le parti sarebbero potute pervenire ai medesimi risultati, utilizzando la facoltà concessa dall’ultimo capoverso dell’art. 1373 c.c., pur a dispetto della natura «non ad esecuzione continuata o periodica» del patto di famiglia.
Secondo l’opinione preferibile, oltre che prevalente in dottrina, invero, non vi è motivo di intendere restrittivamente la disposizione testé citata: ragion per cui, anche nei contratti non di durata, appare sensato ammettere che le parti possano pattuire che il recesso sia esercitabile anche dopo che si sia dato principio alla loro esecuzione [19][269].
L’esercizio del diritto potestativo di recesso determinerà il venir meno degli effetti dell’intero negozio, se a recedere saranno il disponente o il destinatario dell’azienda o delle partecipazioni azionarie.
Per ciò che attiene agli altri legittimari, il recesso di costoro comporterà solo l’obbligo di restituzione di quanto ricevuto e, ovviamente, la non estensibilità nei loro confronti degli effetti del patto, con il risultato che i medesimi verranno a trovarsi nella situazione descritta dall’art. 768-sexies c.c.
Inutile dire, concludendo sul punto, che, attese le inevitabili complicazioni e gli immaginabili strascichi dell’atto in oggetto, sarà opportuno raccomandare ai notai di fare assai parco uso di questa clausola.
L'ultima parte dell'art. 768 septies cod.civ. infatti descrive l'attività del recedente come esplicantesi "necessariamente, attraverso dichiarazione agli altri contraenti certificata da un notaio". Quanto alla "certificazione" si deve ritenere che il legislatore abbia così inteso alludere in maniera impropria all'attività notarile che necessariamente dovrà presiedere al confezionamento della dichiarazione che sostanzia l'atto unilaterale di recesso. Nulla si dice in maniera diretta circa la forma, anche se le espressioni appena commentate possono, nella loro scarsa congruenza, essere interpretate come genericamente riferibili all’esigenza che la dichiarazione sia rivestita di una specifica veste. Anche in questo caso potrebbe essere invocata la vis actractiva del collegamento formale, ciò che imporrebbe di dar vita ad un atto pubblico [20]
Risoluzione del patto
Non vi è poi dubbio che il patto di famiglia, che è contratto a tutti gli effetti, sarà impugnabile con tutti i rimedi attinenti al profilo del sinallagma (oltre che genetico, anche) funzionale, con particolare riguardo a quelli risolutori.
In proposito nulla impedirà alle parti di prevedere termini essenziali per l’adempimento (ad es.: la corresponsione differita o rateizzata della liquidazione) o di inserire clausole risolutive espresse, o magari anche penali per il caso di inadempimento di una determinata obbligazione (si pensi sempre al caso in cui determinate prestazioni siano previste come differite).
[1] OBERTO, Il patto di famiglia, Padova, 2006, p. 47
[2] OBERTO, op. cit., p. 49.
[3] OBERTO, op. cit., p. 95
[4] Così, in termini, N. Di Mauro, in Il patto di famiglia, a cura di E. Minervini, sub art. 768 bis, Milano, 2006, p. 40.
[5] Così C. Caccavale, cit.. Non viene spiegato peraltro in quale forma l'invito debba essere formulato allo scopo di scongiurare l'insorgenza di future (prevedibili) contestazioni. Non soltanto: una volta assodato che l'invito fosse stato formulato irritualmente (per esempio inviandolo ad un indirizzo errato, magari volutamente) non si precisa quali conseguenze dovrebbero scaturire da siffatta mancanza. Si aggiunga la considerazione in base alla quale sarebbe assolutamente inusuale far dipendere la validità o l'efficacia di un atto negoziale da un fenomeno attinente alla disciplina latu sensu riferibile alle notificazioni.
[6] A. Busani, Accordi alla presenza di tutti i legittimari, in Guida al diritto de il Sole 24 ore, numero 13, 01 aprile 2006, p. 50.
[7][270] In questo senso v. anche Villani, Il nuovo patto di famiglia, in Pratica fiscale e professionale, n. 10, 6 marzo 2006; Lupetti, Patti di famiglia: note a prima lettura, cit., p. 9; Buffone, op. loc. ultt. citt.; Venchiarutti, op. loc. ultt. citt.
[8][271] Così Villani, Il nuovo patto di famiglia, loc. cit.
[9][272] Cfr. supra, § 15.
[10][273] Per un approfondimento del tema con riguardo agli accordi in sede di separazione consensuale tra coniugi cfr. Oberto, Simulazioni e frodi nella crisi coniugale (con qualche accenno storico ad altri ordinamenti europei), nota a Cass., 5 marzo 2001, n. 3149, in Familia, 2001, p. 795 ss.; Id., Simulazione della separazione consensuale: la Cassazione cambia parere (ma non lo vuole ammettere), nota a Cass., 20 novembre 2003, n. 17607, in Corr. giur., 2004, p. 315 ss.
[11] A. Busani, Dubbi se l'azionariato è solo investimento, in Guida al diritto, de Il sole 24 ore, 1 aprile 2006, n. 13, p. 46.
[12][274] Così anche Petrelli, op. cit., p. 458.
[13] Secondo un'opinione la mancata previsione dell'assistenza dei testimoni potrebbe condurre alla costruzione del patto di famiglia in chiave di liberalità non donativa, connessa ad un negozio con natura divisionale (Friedmann, cit., p. 62). Al di là della condivisione di una siffatta impostazione dal punto di vista del profilo causale indubbiamente composito e complesso della negoziazione in esame, non si può tuttavia non evidenziarne la natura attributiva diretta, ciò che non può negarne la portata donativa. E' ben vero che, tenuto conto del modo di disporre dell'art. 809 cod.civ., potrebbe anche configurarsi, a fianco della donazione e delle liberalità indirette, un tertium genus tipico di attribuzione a titolo liberale, consistente per l'appunto nel patto di famiglia.
[14] Se ne è inferita quantomeno l'opportunità dell'intervento in atto dei testimoni: cfr. M.C. Lupetti, cit..
[15][265] Merlo, Il patto di famiglia, cit., p., 12.
[16][266] Cfr. Capozzi, Il mutuo dissenso nella pratica notarile, in Vita notar., 1993, p. 635 ss. Secondo Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2004, p. 1008, il mutuo dissenso rappresenta un negozio con esclusivi effetti solutori e non è idoneo a produrre l’effetto traslativo costituito dal ritrasferimento. Di conseguenza, secondo tale tesi, l’effetto del ritrasferimento verrebbe prodotto da un atto separato solutionis causa, giustificato dal pregresso accordo.
[17][267] Così Merlo, Il patto di famiglia, cit., p., 13.
[18][268] Così Merlo, Il patto di famiglia, cit., p., 13.
[19][269] Di Majo, Recesso unilaterale e principio di esecuzione, in Riv. dir. comm., 1963, II, p. 112; De Nova, in Sacco e De Nova, Obbligazioni e contratti, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, 10, II, Torino, 1982, p. 548; contra Cass., 16 novembre 1973, n. 3071, secondo cui «Non può configurarsi come recesso unilaterale a norma dell’art 1373 cod. civ. una facoltà esercitabile, per espressa previsione delle parti, soltanto a contratto eseguito. (Nella specie la C. S. ha escluso la natura di recesso alla clausola contrattuale con la quale si facultava il venditore di un terreno di chiedere la risoluzione del negozio se il compratore non vi avesse costruito entro un dato termine e secondo un determinato progetto)».
[20] Si veda infra, alla nota 39 che precede. Per quanto attiene alla forma dell'atto che veicola il recesso pare potersi sostenere in generale l’assenza di particolari vincoli, ad eccezione del caso in cui il recesso si riferisca ad un negozio qualificato da un formalismo necessario ad substantiam actus (Cass. Civ., 1609/94). In questo senso anche Bianca, cit., p. 737 e Sangiorgi, cit., p. 7, contra Gabrielli-Padovini, cit., p. 44, per il quale "non esiste una equazione tra forma dell'accordo e forma del recesso, giacché non sempre i formalismi derivano dall'applicazione dell'art. 1350 cod. civ. ". A sostegno di questa tesi detto A. cita i casi di riscatto della rendita perpetua (che può esercitarsi con il mero pagamento della somma dovuta), il recesso dalle società di persone (ammesso anche oralmente quando sussiste una giusta causa), il recesso dalle società di capitali (per il quale, ai sensi dell'art. 2437, II comma, cod. civ., è sufficiente una lettera raccomandata, laddove per l'atto costitutivo si richiede l'atto pubblico) e il recesso nelle locazioni di immobili urbani adibiti ad uso abitativo (per il quale è prevista una apposita forma non richiesta invece per la stipulazione dell'atto.)