3 maggio 2014 - Le due madri

Intervento del Presidente UGCI Piacenza al Convegno per la Vita - 3 maggio 2014, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma

Convegno per la Vita – Roma

Pontificia Università Regina Apostolorum

3 maggio 2014

 

Le due madri

 

Intervento dell’Avv. Livio Podrecca

Presidente UGCI Piacenza

 

Due anni fa abbiamo fatto un convegno, come Giuristi Cattolici, a Piacenza, che si intitolava ‘Nel grembo di tua mare’. C’erano Francesco D’Agostino, Lucetta Scaraffia, Anna Maria Poggi. E c’era Gabriella Gambino, alla quale chiedemmo di fare una relazione che avesse il cuore nel giudizio delle due madri di Re Salomone. Questo giudizio delle due madri è stato anche l’oggetto di uno scritto di Lanfranco Mossini, già presidente del Tribunale di Parma, nel 1978 ordinario del corso di filosofia del diritto all’Università di Parma. Lanfranco Mossini fu relatore della mia tesi di laurea, con lode, in giurisprudenza, dal titolo ‘il diritto e il processo nella verità dell’arte’.

Questa figura biblica, del re salomone, mi ha quindi accompagnato, in tutti questi anni, è rimasta come un leit motiv, assieme alla figura, autorevole e carismatica, del mio relatore, della mia carriera, chiamiamola così, di giurista.

Non sono un ricercatore, sono un avvocato e lavoro in trincea, con l’elmetto, dietro al filo spinato, il respiro e le pallottole nemiche sibilano tutti i giorni nell’aria che respiro.

Un praticone, diciamo, e quello che dirò, un po’ a memoria, in una chiacchierata tra amici, risentirà di tutto questo.

Me scuso in anticipo. Sarei contento se solo dalle mie parole a qualcuno di voi, dotato di mezzi adeguati, venisse la voglia di fare qualche approfondimento.

 

Prima di affrontare il tema, vorrei partire dal diritto naturale, e dalla cosiddetta legge di Hume, detta anche della ‘fallacia naturalistica’.

Secondo Hume, gli asserti del giusnaturalismo, di un diritto, cioè, che scaturisce dalla realtà della cose, sarebbe viziata da un insuperabile fallo logico, per cui, senza un fiat, cioè senza una volontà che qualcuno sia stata espressa, non si potrebbe passare dal piano dell’essere, che è proprio delle cose che accadono, della natura, a quello del dover essere, che è il mondo delle regole, della cultura, e del diritto.

La necessità che qualcuno, che una qualche autorità, esprima la volizione contenuta nella norma giuridica, e si ponga quindi su un piano assiologico, dei valori, esclude in radice la possibilità che il dover essere possa scaturire di per sé dal basso, per così dire, senza il concorso di una volizione umana e, quindi, inficia il presupposto stesso del giusnaturalismo.

 

E’ interessantissima questa questione! Francesco D’Agostino, nel suo Corso di Filosofia del diritto, ne propone il superamento immaginando il contesto assiologico intrinseco alla stessa ragion d’essere dei soggetti del diritto. Riprendendo l’esempio di Husserl, il fatto, p. es., che il guerriero debba essere valoroso, e che questo dover essere scaturisca dall’essenza stessa dell’essere guerriero. Potremmo qui immaginare, avvicinandoci al tema che stiamo per affrontare, che l’essenza della madre è generare la vita del figlio, e che la madre debba amare il figlio, desiderare la sua vita. Da qui il dover essere della madre, strettamente connesso al fine che è collegato alla sua funzione.

 

A me è molto piaciuta la prospettiva del filosofo tedesco Hans Jonas, che ascrive il dover essere al principio di responsabilità, di cui l’archetipo ed il prototipo è, nella sua prospettiva, il neonato. Premesso che già l’esistenza in sé si pone sul piano assiologico, come valore, appunto, da difendere, preferibile rispetto al non essere, il neonato è la rappresentazione vitale e concreta di una esistenza in atto e nello stesso tempo in divenire, un divenire che, per potersi svolgere, ha bisogno di un aiuto, un intervento, un sostegno, che in primo luogo coinvolge i genitori, la loro responsabilità. L’esistenza del figlio interpella i genitori, li coinvolge emotivamente, ne sollecita l’impegno. Di per sé esprime quel dover essere che chiede di essere riconosciuto, è e si esprime in natura.

 

Da un’altra straordinaria prospettiva, un altro ‘dover essere’ che misteriosamente scaturisce dalla natura delle cose la troviamo nel tabù dell’incesto (di cui, come dice Lacan, la pedofilia è la metafora). Come hanno scoperto gli antropologi, in particolare Frazer e Levi Strauss, il divieto dell’incesto è la norma primordiale, presente in tutte le culture ed in tutti i tempi, che, come le leggi di natura, ha un carattere universale, e nello stesso tempo è una regola, coinvolge cioè un dover essere, che è spontaneamente riconosciuto. Questo passaggio spontaneo, dalla natura alla cultura, si realizza ancora una volta nei rapporti famigliari, e nella famiglia, e presuppone la differenza sessuale. Secondo Levi Strauss, il passaggio dalla natura alla cultura si realizza nella sessualità, l’unica pulsione, come la definisce Freud, a richiedere, per essere soddisfatta, la partecipazione di un altro soggetto.

 

Ecco adesso considerato che il tempo è poco occorre resistere alla tentazione della digressione sulle tematiche del gender, che questi temi chiamano a gran voce. Mi limiterò a dire che, se queste premesse sono vere, possiamo parlare di un diritto naturale, di un dover essere che scaturisce dalla realtà delle cose, dal lògos, dalla razionalità che regola non solo la natura fisica, ma anche la morale, la cultura, il diritto, e che ha nella famiglia e nei rapporti famigliari la propria scaturigine, la scintilla da cui nasce la società e, assieme ad essa, il diritto. Per questo Francesco D’Agostino parla di una giuridicità costitutiva della famiglia. Per questo, soprattutto, San Giovanni Paolo II invitava i propri collaboratori a leggere e rileggere quelle poche righe del Libro della Genesi dove si parla della creazione dell’uomo, creato a immagine di Dio proprio perché maschio e femmina.

 

Ma veniamo al Re Salomone, ed al suo giudizio. La storia è nota. Ma giova ricordarla.

 

1Re 3,16-28

16 Un giorno andarono dal re due prostitute e si presentarono innanzi a lui. 17 Una delle due disse: «Ascoltami, signore! Io e questa donna abitiamo nella stessa casa; io ho partorito mentre essa sola era in casa. 18 Tre giorni dopo il mio parto, anche questa donna ha partorito; noi stiamo insieme e non c'è nessun estraneo in casa fuori di noi due. 19 Il figlio di questa donna è morto durante la notte, perché essa gli si era coricata sopra. 20 Essa si è alzata nel cuore della notte, ha preso il mio figlio dal mio fianco - la tua schiava dormiva - e se lo è messo in seno e sul mio seno ha messo il figlio morto. 21 Al mattino mi sono alzata per allattare mio figlio, ma ecco, era morto. L'ho osservato bene; ecco, non era il figlio che avevo partorito io». 22 L'altra donna disse: «Non è vero! Mio figlio è quello vivo, il tuo è quello morto». E quella, al contrario, diceva: «Non è vero! Quello morto è tuo figlio, il mio è quello vivo». Discutevano così alla presenza del re. 23 Egli disse: «Costei dice: Mio figlio è quello vivo, il tuo è quello morto e quella dice: Non è vero! Tuo figlio è quello morto e il mio è quello vivo». 24 Allora il re ordinò: «Prendetemi una spada!». Portarono una spada alla presenza del re. 25 Quindi il re aggiunse: «Tagliate in due il figlio vivo e datene una metà all'una e una metà all'altra». 26 La madre del bimbo vivo si rivolse al re, poiché le sue viscere si erano commosse per il suo figlio, e disse: «Signore, date a lei il bambino vivo; non uccidetelo affatto!». L'altra disse: «Non sia né mio né tuo; dividetelo in due!». 27 Presa la parola, il re disse: «Date alla prima il bambino vivo; non uccidetelo. Quella è sua madre». 28 Tutti gli Israeliti seppero della sentenza pronunziata dal re e concepirono rispetto per il re, perché avevano constatato che la saggezza di Dio era in lui per render giustizia.

E’ impressionante come il giudizio di Salomone sia il paradigma della storia e del dramma dei nostri tempi, al centro del quale sta la donna. E la maternità. La donna decisiva nella storia umana, e, parafrasando Pavel Evdokimov, nella storia della salvezza. Dio Padre, principio di Vita, ha avuto bisogno di una Donna, di Maria, per realizzare il disegno di salvezza per l’umanità. Noi, come Cristo, siamo figli del sì di una Donna. L’esperienza che ciascuno di noi ha della donna comincia dall’essersi formato nel grembo di una donna. E, fino a poco tempo fa, dal corpo, da uno degli ovuli, di quella donna. Ma di questo parleremo dopo. Per questo la donna è prima di ogni altra cosa accoglienza, tenerezza, attenzione all’altro. Per questo la donna è attenta che la casa sia in ordine, che i figli siano lavati e puliti, si preoccupa per loro. Come ci insegna il padre della neuropsichiatria infantile, il linguaggio tra la madre e il figlio è un codice fatto di segni indecifrabili di cui neppure la prima ha cognizione, una percezione intuitiva e viscerale.

 

Nella vicenda delle due madri mancano i padri. Come nella nostra società come ci ha così bene insegnato Claudio Risé. Secondo Jacques Lacan, l’assenza dei padri è all’origine della grande nevrosi dei nostri tempi. Nella nascita, il padre è, come lo ha definito con immagine bellissima Claudio Risé il portatore della ferita; la ferita della separazione. Il padre, portando la regola, e la prima regola è l’interdetto della madre, il divieto dell’incesto, rompe il legame simbiotico tra il bambino e la madre. In esso vi è per il bambino una identificazione assoluta, un universo indifferenziato. L’intervento del padre rompe l’idillio di un circolo  che, se così non fosse, da virtuoso diventerebbe vizioso, anzi, velenoso. Non c’è peggior retaggio per la persona rimanere intricato nei legami di questo vincolo legato alla presenza ed alle aspettative materne. La madre divorante e castrante della psicanalisi, di Freud, di Jung. L’origine di tante nevrosi. Forse dovremmo riflettere di più su questi temi, quando parliamo di diritto al figlio, quando la maternità è vista in funzione della realizzazione egoistica della madre, e non in funzione dei bisogni del figlio. Il padre, con la regola, introietta nel figlio il principio di realtà. Lui non è il centro dell’universo, esiste una realtà, esistono gli altri: il padre, i fratelli. Questa frustrazione, con i meccanismi ambivalenti di ammirazione e nello stesso tempo di timore e di avversione verso la figura paterna, ne provocano l’idealizzazione e sono la base e la causa dello sviluppo successivo della persona. La regola dettata dal padre, la sua autorità oggi negata, sono quindi un servizio alla persona, al suo sviluppo, un aiuto ad entrare nella realtà. L’intervento del padre porta pian piano il bambino al riconoscimento dell’altro, di un tu, con il quale convivere. Qui si forma la società e, cosa che è strettamente collegata, nasce il diritto.

 

Su un piano diverso, questa dovrebbe essere la funzione della legge, del diritto positivo: non un diritto creativo, ma un servizio alla persona, che non può prescindere dal riconoscimento dell’ordine naturale delle cose, secondo il progetto che ne deve guidare lo sviluppo. Tolto il padre biologico e la sua autorità, negato Dio, il Padre Celeste, il Lògos, il Suo Verbo, la razionalità che governa la natura, l’uomo ritorna come un bambino nella fase pregenitale, immerso in un universo confuso ed indistinto e la ragione, non più guidata dal principio di realtà, sragiona. Di qui l’origine del delirio attuale, nel quale può attecchire una teoria assurda come quella del gender, nel quale dobbiamo dimostrare la verità di ciò che è fattuale ed evidente, dove si realizza la profezia di J.G. Chesterton, che fuochi saranno accesi per dimostrare che due più due fa quattro e spade sguainate per dimostrare che le foglie d’estate sono verdi.

 

Anche qui, al cospetto di Salomone, le madri sono sole, a contendere davanti al re.

 

Nella notte, una delle madri – prostitute - nel suo sonno bestiale uccide il figlio, coricandovisi sopra. Lo soffoca. La notte evoca quella della ragione, quella che viviamo ai nostri giorni, dove la vita umana viene negata e respinta, ridotta ad oggetto. Nell’aborto, nella fecondazione assistita, nell’utero in affitto, dove la dignità umana è umiliata e negletta. La notte del dolore, negato per legge alle madri che uccidono la vita nel proprio grembo. L’incoscienza di chi pensa di che la maternità possa essere pacificamente surrogata, come un fatto meccanico, quasi che il dna, le radici profonde della persona fossero beni secondari e fungibili e non costitutivi profondamente della identità.

 

Quando torna un po’ di luce, la madre pretende il figlio che ha sottratto all’altra, lo considera suo, lo vuole a tutti i costi. Questo è il ritratto della nostra società, afflitta dal gelo di un inverno demografico senza precedenti, eppure così arrogante e pretenziosa quando il figlio diventa un diritto.

 

Di fronte alla loro pretesa, il re ordina: mi sia portata una spada! Tagliate in due il bambino e ne sia data una metà all’una ed una metà all’altra!

 

In una causa senza testimoni, senza soluzione, il re mette davanti alle pretendenti la esasperata conseguenza della loro pretesa, perché ne venga fuori il cuore. Consapevole che il cuore di una madre è quello oblativo, in cui l’amore è per la libertà del figlio, a sua volta concepito come dono. La madre, secondo ciò che la natura richiede, dà la vita al figlio, e dà la vita per il figlio. Un dover essere che riconosce di essere al servizio della esistenza altrui, nella accoglienza, prima di tutto, e non viceversa. Il Re non pratica ordalie, né magie o incantesimi, né applica norme religiose – confessionali, direbbero i moderni laicisti. Ma, laicamente, ricorre alla spada. E al diritto naturale. Il Re non applica una sua morale, né la morale della maggioranza, ma aspetta che il diritto si manifesti, lo riconosce. Questa è l’attività che più di ogni altra dovrebbe catturare la riflessione del legislatore e dei giuristi: cercare e riconoscere il fondamento, la base oggettiva e razionale delle norme, che risiede primariamente nell’ordine naturale, preesistente alla legge ed al diritto positivo. Per questo Salomone ha chiesto a Dio un cuore docile, perché anzicché imporre il diritto dall’alto, lo sappia, appunto, riconoscere e lasciare scaturire, per così dire, dal basso.

 

Alla minaccia il cuore della vera madre del figlio vivo, che è lei ce lo dice il narratore, che lo sa, si commuove, e freme nella rinuncia: purché egli viva! Non così la rivale: no! Sia tagliato in due, a ciascuna la sua parte! Il giudizio del re è per la prima, per quella che con la sua condotta, con il suo cuore, ha dimostrato di essere la vera madre del figlio vivo!

 

Ecco, sarebbe interessante ripetere questo giudizio con le coppie vittime del recente ed emblematico scambio di embrioni in una clinica romana. Abbiamo, oggi, madri che pretendono i figli, anche se sono altrui, come la donna che, per trentamila euro, ne ha commissionato uno ad una donna ucraina. Oppure a costo della loro stessa vita, come quella degli embrioni criocongelati o sacrificati ai rituali della fecondazione assistita, orami anche, dopo il pronunciamento della Consulta, liberamente eterologa.

 

Di fronte a questi casi, però, la spada del re moderno non si ferma; la legge non serve la sapienza e la razionalità della legge naturale, come ha saputo fare il Re Salomone. Madri vere e surrogate si dividono i figli in un mercato dove la realizzazione spesso solo sentimentalistica di sé e del proprio io soffoca ogni afflato oblativo in che stava la ineffabile bellezza della maternità, sfolgorante in figure come Gianna Beretta Molla o Chiara Corbello Petrillo. Nello stesso tempo, il diritto, nel rendersi mero registro ed esecutore dei desideri individuali, incapace di cogliere la propria essenza ed involuto, come lo chiamava Natalino Irti in un famoso libro, nel suo nichilismo giuridico, fallisce la propria missione e sprofonda la società in una sempre più marcata frammentazione, insicurezza, confusione, e verso la propria inevitabile dissoluzione.

 

Che ne sarà dei figli, innocenti ricettacoli delle pretese e nevrosi materne, deprivati delle radici, piccoli totem di idolatrie narcisistiche? Non vogliamo, per ora, pensarlo. Preferiamo fermarci a quella spada fermata dal giudizio di Salomone, la Sapienza era in lui per poter rendere giustizia al suo popolo.