13 aprile 2015 - Matrimonio, unioni civili e convivenze di fatto

Contributo dell'UGCI Piacenza sulla legge sulle unioni civili e convivenze di fatto

Premessa

 

Gli estensori del presente documento ritengono che le istanze di riconoscimento e di disciplina delle unioni e convivenze tra persone dello stesso sesso siano ispirate da meri meccanismi imitativi della famiglia naturale, e che tale intento emulativo, ferma la libertà di ciascuno di praticare tali forme di legami affettivi, non sia di per sé sufficiente a costituire un diritto fondamentale a siffatti riconoscimento e disciplina.

In tal senso, le stesse indicazioni della Corte Costituzionale (sentenze n. 138/2010 e 170/2014) paiono fondate su un equivoco, e nel momento in cui sollecitano il legislatore alla introduzione, per tali unioni e convivenze, di una disciplina che sia alternativa a quella del matrimonio e della famiglia, indicano una via a cui nella realtà non corrisponde alcun modello, se non, come detto, nella predetta prospettiva imitativa, quello del matrimonio e della famiglia ex art. 29 Cost.

Rispetto a tale orientamento, gli estensori intendono quindi porsi in posizione critica e contraria alla introduzione di nuove istituzioni para-famigliari, che determinano un grave arretramento della civiltà giuridica.

Nelle pagine che seguono si cercherà di dare ragione di tali convincimenti. 

 

Matrimoni, unioni civili e convivenze di fatto

 

Quando si ragiona di disciplina delle unioni civili e delle convivenze di fatto, anche tra persone dello stesso sesso omosessuali, e di riconoscimento, all’interno di queste, dei diritti civili individuali, bisogna preliminarmente sapere in che cosa esattamente consistano i rapporti che si intendono regolare. Occorre anche essere consapevoli di quali conseguenze abbia, sul piano razionale e della possibilità di riconoscere e dare senso, regolandola, alla realtà dei rapporti sociali, l’introduzione, per legge, di nuovi istituti giuridici quali, per esempio, il c.d. ‘matrimonio omosessuale’.

 

Tale introduzione, si badi, può avvenire anche con istituti identificati con un altro nome, come avviene, per esempio, nel c.d. disegno di legge Cirinnà. In esso, per la disciplina delle ‘unioni civili’ si richiama, infatti, pressoché integralmente la disciplina del matrimonio e della famiglia. In tal modo, anche se il nomen iuris è diverso, per il principio generale di prevalenza della sostanza sulla forma, ci si trova in presenza di un vero e proprio matrimonio, che si differenzia da quello ‘tradizionale’ solo perché accessibile, per l’appunto, a persone dello stesso sesso.

 

Matrimonio deriva dalle parole latine mater e munus. L’essere madre, mater, concerne la donna; il munus vale come impegno, dovere, ma anche come dono. Il matrimonio, quindi, ruota attorno al nucleo centrale ed indefettibile della maternità, come impegno, con i doveri che ciò comporta, e nella dimensione del dono. La maternità implica la generatività della coppia. Il principio di vita è nel seme che viene dall’uomo. La famiglia scaturisce, quindi, da un uomo e da una donna. Da queste dinamiche e, con il divieto universale del matrimonio tra consanguinei, si generano lo scambio e le alleanze tra gruppi. Nasce la società, di cui la famiglia e la parentela sono il linguaggio e le relazioni primarie. Il matrimonio, nelle varie forme in cui si può esprimere, è la regola della famiglia. Il matrimonio, quindi, sul piano antropologico e semantico, può esistere solo nel patto generativo tra un uomo ed una donna tra loro non consanguinei.

 

Per questi motivi, l’espressione ‘matrimonio omosessuale’ è un ossimoro, un non-senso, come dire ‘lo scapolo sposato’. Perché, secondo le leggi della natura, il dono e l’impegno della maternità nell’unione tra persone omosessuali non possono darsi. L’unione omosessuale non è naturalmente generativa, e non può dare origine ad una famiglia, in senso proprio. Può solo cercare (o pretendere) di imitarla. Sostenere il contrario implica un radicale stravolgimento, in senso contrario alle dinamiche naturali, del linguaggio, ed altera il contenuto e la comprensione dei concetti di generatività, filiazione, genitorialità. Si può ammettere il carattere famigliare delle unioni omosessuali solo con un artificio dialettico, sul piano legale e della finzione giuridica, accogliendone istanze che sono solo ed intrinsecamente imitative della famiglia naturale.

 

Nella Costituzione, il matrimonio e la famiglia sono riconosciuti, nelle dinamiche naturali che si sono dette, all’art. 29 della Costituzione ( La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. / Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare ). l matrimonio civile (‘inventato’ da Napoleone nel 1803) sembra avere finito il suo corso, demolito da aborto, separazione e divorzio, decostruito dalle sentenze dei tribunali e della Cassazione. Ciononostante, la insopprimibile esigenza di riconoscimento sociale e giuridico delle dinamiche famigliari continua ad essere presente nella società, e non può svilupparsi che attorno al nucleo della procreazione ed alla comunione di vita che a tale fine si crea, nella necessaria differenza sessuale, tra l’uomo e la donna.

 

L’ordinamento giuridico ha interesse a riconoscere (e non può non riconoscere) la famiglia naturale, perché dalle dinamiche spontanee, naturali ed oblative da cui la stessa trae origine nasce la società e si assicurano le condizioni e la possibilità della sua esistenza nel futuro. Attorno al matrimonio ed alla famiglia naturale, inoltre, si organizzano i ruoli parentali, che ne costituiscono il bene relazionale ed il suo linguaggio primario, e l’ordine sociale e delle generazioni. Al contrario, l’ordinamento non ha alcun interesse proprio al riconoscimento delle unioni omosessuali, per loro natura sterili.

 

Le due situazioni non sono assolutamente comparabili. Ritenere il contrario, comporterebbe la accettazione della idea di una possibile genitorialità, in stile imitativo, anche all’interno delle coppie omosessuali, con il ricorso a finzioni legali. Con l’uso distorto della adozione, per esempio, dove all’interesse del minore ad avere una famiglia si sostituisce quello degli aspiranti genitori ad avere un figlio. Con istituti quale la fecondazione assistita eterologa, dove il rapporto di filiazione è surrogato da una finzione. Ovvero con il ricorso alla cosiddetta ‘gestazione di sostegno’ (l’utero in affitto), il riconoscimento del ‘diritto al figlio’ e la apertura, di fatto, del mercato dei gameti, degli ovuli, degli uteri, dei figli. Eloquenti segnali di una tale deriva già pervengono dalle sentenze dei giudizi nazionali e delle corti europee. In tal modo, l’uomo non è più soggetto, ma oggetto di diritti altrui, con l’affermarsi di nuove forme di sfruttamento e di schiavitù.

 

Esclusa, quindi, la possibilità di equiparare la convivenza tra persone dello stesso sesso con il matrimonio e la famiglia che da esso si genera (ciò che è stato più volte espressamente confermato dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione), ci si chiede se dalle convivenze di fatto possano scaturire esigenze meritevoli di riconoscimento giuridico e di tutela e, se sì, quali esse siano.

 

Prima di tentare una risposta al quesito, occorre evidenziare che anche tali convivenze (in modo specifico quelle tra persone dello stesso sesso) sono intrinsecamente caratterizzate dalla imitazione del matrimonio e della famiglia. Il campo a cui esse inevitabilmente aspirano, quindi, non è tanto quello delimitato dall’art. 2 della Costituzione (“la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”), bensì quello dell’art. 29. Ogni disciplina delle convivenze di fatto, cioè, finisce per assecondare tale tendenza, e si pone inevitabilmente nel campo d’azione di quest’ ultima norma, che è invece riservata alla famiglia naturale fondata sul matrimonio. Questa considerazione può indurre il dubbio se l’art. 2 Cost. possa riferirsi anche a formazioni sociali di tipo famigliare, o se invece per queste ultime sussista una riserva a favore dell’ art. 29 (nel senso che le unioni di tipo famigliare, per vincolo costituzionale, possano godere di disciplina solo se corrispondenti al modello del predetto art. 29). Perché, come detto, è inevitabilmente nel campo di quest’ultima disposizione che il legislatore si pone nel momento in cui riconosce e disciplina relazioni affettive tendenzialmente stabili, simil famigliari e matrimoniali. Questo è dimostrato con particolare evidenza nel disegno di legge approvato dalla 2^ Commissione Giustizia del Senato, dove sia per le unioni civili (omosessuali), sia, con graduazioni diverse, per le convivenze di fatto (sia omo che etero) si richiama sostanzialmente lo stesso regime previsto per il matrimonio monogamico ed esogamico, con impedimenti, scelta del regime patrimoniale, scelta del cognome della unione civile, regime successorio, separazione, rito pubblico (la iscrizione nel registro delle unioni civili in presenza di testimoni), eccetera.

 

Sotto tale profilo, la disciplina delle unioni civili (omosessuali) che si vorrebbe introdurre con il c.d. DDL Cirinnà appare difficilmente emendabile e, comunque, palesemente incostituzionale.

 

Quanto al quesito circa la esistenza, nelle convivenze di fatto, di eventuali esigenze solidaristiche meritevoli di tutela, si ritiene che il discorso vada fatto separatamente tra convivenze omosessuali ed eterosessuali.

 

Nel caso, infatti, di convivenze eterosessuali, la somiglianza alla famiglia naturale ha un carattere sostanziale ed effettivo, per la intrinseca potenziale generatività di tali convivenze. In esse si tende anche a realizzare tra i partners una comunione spirituale e di vita. Ma il fatto che questi ultimi non intendano formalmente impegnarsi tra loro, contraendo matrimonio, dovrebbe, sotto un primo profilo, escludere che ad essi si possa estendere la disciplina del matrimonio, in quanto ciò sarebbe lesivo del loro diritto fondamentale di non sposarsi (una libertà negativa, quindi). D’altra parte, sotto un secondo profilo, prevedere forme alternative di vincolo (p. es. la iscrizione al registro delle unioni civili), vorrebbe dire introdurre una nuova e rudimentale forma di matrimonio, meno chiara e garantista di quella esistente, invadendo, come detto, il terreno dell’art. 29 della Costituzione, con gravi dubbi di legittimità costituzionale di una tale operazione.

 

Nelle unioni omosessuali, esclusa la loro equiparabilità al matrimonio ed alla famiglia, ci si può trovare al cospetto di una comunione spirituale e di vita, generativa di aspettative sia tra i partners, sia da parte degli stessi riguardo al riconoscimento delle loro aspirazioni alla genitorialità. Riguardo a questo secondo punto, ad un corretto ed onesto approccio alle acquisizioni ed alle evidenze della psicologia e delle scienze sociali, il diritto dei minori ad avere un padre ed una madre non dovrebbe poter essere minimamente messo in dubbio né in discussione. Si richiamano, p. es., tra i tanti, i recenti interventi di Silvia Vegetti Finzi ed Italo Carta, le ricerche di Mark Regnerus, le pubblicazioni in tema di omogenitorialità di Massimo Gandolfini e Roberto Marchesini. Ritenere diversamente, oltre che violare lo spirito e la lettera delle Convenzioni Internazionali (p. es. la Dichiarazione di New York dei Diritti del Fanciullo del 20-11-1959 e la successiva Convenzione del 20-11-1989; la Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia) e favorire abusi, aprirebbe il campo ad una vera e propria sperimentazione sui minori, in patente violazione del più elementare principio di precauzione, proprio in un campo che più direttamente coinvolge la persona e gli aspetti più delicati del suo sviluppo psico-fisico. Quanto al resto, anche in questo caso si tratta di valutare l’esistenza di esigenze solidaristiche che, in caso di cessazione o di rottura della convivenza, possano o debbano dar luogo a reazioni dell’ordinamento a tutela del partner debole. Occorre, però, precisare, che, sia che si parli di convivenze omosessuali che eterosessuali, il carattere ‘affettivo’ delle stesse non può che rimanere su di un piano meramente descrittivo privo di effetti giuridici, perché, così come l’amicizia, l’amore, la buona o la cattiva educazione, anche l’affetto e l’orientamento sessuale, per la loro soggettività ed inafferrabilità, restano al di fuori del diritto ed irrilevanti e non apprezzabili per lo stesso. Il riconoscimento delle convivenze di fatto, quindi, o introduce regolamentazioni simil-matrimoniali, oppure apre la possibilità di pubblico riconoscimento di esigenze solidaristiche che, a norma dell’art. 2 Cost., inevitabilmente finiscono per poter contrassegnare qualsiasi convivenza umana, indipendentemente dalla sua imitazione del matrimonio e della famiglia (p. es., due o più pensionati che convivono e si fanno compagnia; amici che convivono e si aiutano e sostengono reciprocamente; ecc.).

 

La tutela dell’affidamento solidaristico che può scaturire da tali convivenze ha quindi un triplice riflesso.

 

Il primo. Nel caso in cui si vogliano disciplinare tali rapporti con una disciplina imitativa di quella del matrimonio e della famiglia si invaderebbe clandestinamente l’area che l’art. 29 Cost. riserva al matrimonio ed alla famiglia naturali. L’operazione sarebbe, allo stato attuale, illegittima ed incostituzionale per quanto riguarda le convivenze tra persone dello stesso sesso; di dubbia costituzionalità (e, comunque, meno garantista e peggiorativa rispetto all’attuale regime giuridico del matrimonio) per le convivenze tra persone eterosessuali.

 

Il secondo. Se dal permanere e dallo sciogliersi delle convivenze di fatto si facessero scaturire diritti e doveri individuali si violerebbe il diritto di libertà negativa, di non assumere impegni, in quanto nessuno può essere costretto né ad istituire una convivenza, né, nel momento in cui la istituisce, a doversi esporre a doveri e conseguenze patrimoniali che non intende minimamente assumere, volendo che la sua relazione di fatto rimanga fuori dalla rilevanza per il diritto. Nel caso del DDL Cirinnà, tali effetti scaturirebbero propriamente dal mero fatto della convivenza, mentre la prova del relativo inizio (e del possesso del connesso status di convivente) sarebbe rimessa alle risultanze dei registri anagrafici, le cui certificazioni, come noto, hanno un valore solo presuntivo, superabile dalla prova contraria.

 

Il terzo. Se dalle esigenze solidaristiche che si dovessero ritenere tutelabili, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, nelle convivenze di fatto (in modo, tuttavia, che dovrà essere necessariamente indipendente dal loro carattere ‘affettivo’, dal genere e dall’ orientamento sessuale dei conviventi), si dovessero far discendere provvidenze pubbliche (p. es. in materia pensionistica), si tratterebbe di interventi sostanzialmente assistenziali, tendenti a farsi carico di bisogni individuali che, se non sono già riconosciuti ai singoli dall’ordinamento, sarebbero produttivi di nuovi ed ulteriori oneri a carico della collettività. Ci si chiede se, nel momento attuale, di ciò vi sia realmente bisogno. E’ infatti legittimo chiedersi, con riferimento al DDL Cirinnà, quale copertura finanziaria e quale aumento dei carichi fiscali e previdenziali saranno necessari per sostenere l’aumento delle spese che la nuova disciplina inevitabilmente comporterà, anche per le facili forme di abuso a cui si presta.

 

A margine delle superiori considerazioni, per ciò che riguarda le unioni eterosessuali negli attuali progetti di legge, si osserva che il riconoscimento e la regolazione delle convivenze di fatto pare attestarsi su forme grossolane, che segnano un regresso della disciplina e delle tutele rispetto a quelle attualmente previste per il matrimonio e la famiglia. Il riconoscimento e la disciplina delle convivenze può essere – forse – considerato una esigenza di realpolitik, data l’evoluzione del costume in atto, ma con ciò la civiltà giuridica accoglie elementi di incertezza e confusivi del diritto di famiglia e ne segna un significativo arretramento.

 

Al contrario, il cedimento, sul piano simbolico, ai meccanismi imitativi della famiglia naturale proprio delle unioni omosessuali opera invece una grave mistificazione del senso giuridico del matrimonio e della famiglia e, di conseguenza, sul piano semantico, una falsificazione della realtà (che rende incomprensibile) e del linguaggio che la esprime. Ciò avrebbe prevedibilmente deprecati effetti di confusione e disorientamento sociale, scollamento interno del sistema e degli istituti normativi e moltiplicazione degli sviluppi interpretativi e del margine di discrezionalità (sconfinante nell’arbitrio) degli stessi, con sacrificio della certezza del diritto e della effettiva tutela dei veri diritti fondamentali (soprattutto quelli dei più deboli, i bambini).

 

Piacenza, 13 aprile 2015.

 

Il Presidente ed il Consiglio Direttivo dell’ UGCI Piacenza