26 gennaio 2016 - Matrimonio e adozione gay
principio di realtà e principio del piacere
La formazione sociale di cui si parla nell’art. 2 della Costituzione è tutelata solo in quanto in essa si esprimano e sviluppino diritti fondamentali della persona. Ci si chiede allora quali siano questi diritti fondamentali, e che contenuto essi debbano avere, tenendo conto che dare rilievo giuridico alla affettività ed all’orientamento sessuale è come voler far discendere conseguenze giuridiche da ciò che uno pensa: come si fa a saperlo e, soprattutto, a provarlo? Ignorando questa pur fondamentale premessa (che dovrebbe di per sé essere dirimente), parlando di unioni gay, ci si chiede se i membri delle stesse debbano avere, o meno, il diritto di sposarsi e, magari, di avere figli (procurandoseli in qualche modo, essendo di per sé sterili). E qui la si può pensare diversamente. Se, infatti, si ritiene che i diritti fondamentali siano quelli che lo Stato e la maggioranza di turno decide a sua discrezione ed arbitrio di riconoscere o stabilire come tali, allora il discorso si chiude qui. Se il Parlamento introduce il matrimonio gay e dice che esso è espressione del diritto fondamentale (affermato dalla Corte Costituzionale) della persona omosessuale a vivere una condizione di coppia (senza chiarire come risolvere i dubbi circa la possibilità e le modalità per accertare l’effettivo orientamento sessuale dei titolari di un tale diritto), la risposta alla domanda è senza dubbio affermativa. Naturalmente, se è solo una questione di maggioranza, il Parlamento, nel segno della libertà di amare, potrà in seguito rendere lecito anche il matrimonio tra madre e figlio (o figlia), la poligamia e la pedofilia (che nel Nord Europa, infatti, comincia ad essere oggetto di nuove e favorevoli riflessioni). Se l’uomo può decidere autonomamente di tutto, che cosa è bene e che cosa è male, ci si deve aspettare un giorno la legittimazione della eutanasia e, in genere, dell’omicidio, oppure che non è obbligatorio rispettare i patti. Se adesso si può ritenere equo e giusto che un bambino possa essere comprato da una fornitrice di utero in affitto ed avere due mamme, o due papà, non ci può davvero essere più nulla di cui stupirsi. Ogni desiderio può aspirare a diventare un diritto fondamentale, e poi legge. Ma se si ritiene che a tutto questo ci debba essere un limite, qualcosa di fermo ed oggettivo al di là del quale non si possa andare, e che possa fungere da barriera contro le deliranti derive di onnipotenza cui va ciclicamente soggetto il genere umano (in fondo la selezione della razza ideata da Hitler aveva un fine buono, di miglioramento della umanità), allora occorre chiedersi dove si trovi questo limite. Le dichiarazioni universali dei diritti e le moderne costituzioni occidentali hanno ritenuto di rinvenirne il fondamento nel diritto naturale. E’ infatti universalmente riconosciuto il loro carattere giusnaturalistico. Si potrebbe dire che il giusnaturalismo, facendo riferimento all’ordine naturale delle cose, abbia quasi la funzione di rendere presente ed introdurre nel mondo del diritto il principio di realtà che, come noto, in psicologia si contrappone al principio del piacere. La realizzazione del principio di realtà è affidata alla azione paterna, mentre il principio del piacere è, anche simbolicamente, proprio del mondo materno. E’ proprio l’ordine naturale delle cose a presentare alla ragione ed alla coscienza il matrimonio come l’unione potenzialmente generativa tra un uomo ed una donna, da cui nasce la famiglia. E’ questo il modello universale di coppia che, in un sistema binario che in natura regola anche la sessualità, ci si presenta come simbolo, archetipo e modello originario della vita famigliare. Il resto è fantasia, ideologia, imitazione, o gioco. Tutti hanno il diritto di contrarre matrimonio e fondare una famiglia, secondo il modello, naturale, eterosessuale, che la nostra Costituzione ha riconosciuto e fatto suo. I desideri di una affettività ferita non possono evidentemente bastare per stravolgere né questo modello, né la natura, né il diritto. Piuttosto essi sembrano l’effetto di un regresso e di un ristagno del mondo interiore negli angusti limiti di quello infantile e materno, e del piacere rassicurante che esso offre e rappresenta, come un nido caldo da cui non si riesce ad uscire e liberarsi. Per farlo, ci vorrebbe infatti un padre. Anzi, un Padre. Ma entrambi sono stati respinti dagli orizzonti culturali della modernità, piegata su se stessa in un disperato anelito edonistico, nella ricerca del piacere in un pansessualismo esasperato che si vorrebbe introiettare nella persona fin dalla più tenera età, come dimostrano i tentativi di insegnamento della ideologia gender nelle scuole. Un’affettività ferita geme quindi e grida trasferendo illusoriamente sul riconoscimento delle pseudo famiglie omogenitoriali la chiave della propria realizzazione e nel diniego dello stesso le ragioni di un presunto stigma sociale. Il dolore di uno sviluppo affettivo incompleto e mancato cerca illusoriamente sollievo nelle pretese di riconoscimento dei cosiddetti diritti, del matrimonio egualitario e dei supposti figli, che tali, nelle coppie omogenitoriali, non sono, almeno per uno e talora per entrambi i partners. E’, questo della affettività ferita, un grido di aiuto. Il vero problema è semmai capire quale è il vero bene di queste persone, alle quali guardiamo senza giudizio, con sincero affetto e comprensione, senza però poterne assecondare richieste che, al di là delle loro stesse intenzioni, avrebbero l’effetto certo di aggravare i danni, facendo dei figli un gioco, un prodotto di consumo, mercificando la vita umana a profitto degli speculatori delle tecno-scienze, con grave detrimento loro, dei bambini (a cui servono un papà ed una mamma), e della intera società.
Piacenza, 26 gennaio 2016.
Livio Podrecca